domenica 31 maggio 2009

Il viaggio.

La donna che è partita si ferma spesso a guardare l'orizzonte. Conosce e scruta, quando si ferma pensa. Scrive, cullata dalle onde placide. Spesso la notte guarda il cielo e vorrebbe tornare, vorrebbe tornare, vorrebbe ancora. Quelle stelle le parlano di ricordi che ancora non hanno trovato un posto, han perso il nome quelle stelle. Vorrebbe tornare, ma non torna e scrive e pensa e lascia che il tempo scorra, guarda sempre lontano e attende che quell'orizzonte porti altro e nuovo e ancora altro. Va, eppure resta ferma. Ad ogni attracco raccoglie un sasso, scegliendolo con cura e cercandolo a lungo se necessario, rituale intimo e puerile. Li dispone con cura uno vicino all'altro, in attesa di prendere la penna. Quasi ogni sera scrive. Scrive a quell'uomo rimasto al telaio, racconta, ricorda, vorrebbe chiedere ma non ci riesce e non chiede. Vorrebbe dire, ma non riesce, e non dice. Ciononostante scrive. Inizia ogni lettera nella stessa maniera, sempre le solite parole che ancora non sa trovarne altre. Ogni mattina si alza, piega quei fogli vergati con amore e li avvolge con cura intorno ai sassi, ascolta il rumore dell'acqua che li accoglie, guarda le lettere scendere e sparire nella profondità scura del mare silenzioso. Ogni partenza, un ciottolo che lascia sul fondale, senza risposte. Continua, la donna, in una vana illogica ricerca. Che non ha senso, non porta frutti. Naviga, ma senza bussola. Senza le carte, spinta soltanto dalla ricerca di attracchi che diano sassi. Si allontana solamente, senza cercare, senza trovare. Non è viaggio, ancora. Ròsa dalla nostalgia, malinconiosa, triste, scrive. D'un tratto una sera si interrompe. Appoggia la penna, alza gli occhi al cielo nuovo, la luna le sorride, di un filo appena. Lascia quei fogli abbandonati al vento, respira forte e si alza. Si versa un bicchiere di vino fresco, si chiede tempo. Il tempo di una sera nuova. Al mattino seguente si sveglia e ritrova i fogli sparsi. Straccia le pagine, scaglia lontano quelle pietre inutili, ripone la penna. Si chiede tempo per un altro giorno e un altro ancora. E li mette in fila, pazientemente, cercando una risposta che sa di aver dentro di sé. Apre il baule rimasto intatto, accarezza le stoffe. Si sente come se non sapesse vestirsene lontano da lui e per questo non ha aperto più quello scrigno. Ma lui gliel'ha donato. La donna chiude gli occhi, ripensa quel viso. Non ha più altri modi per sentirlo vicino, adesso. Realizza questo pensiero e con sgomento si accorge che non lo ha volito accettare per troppo tempo. Indossa un vestito, attracca e scende dalla barca. Una sera, due giorni, tre giorni. Il tempo passa, son mesi. Una sera si siede a guardare il cielo. Pensa a quell'uomo al telaio e non sa più come pensarlo. Così lontano, intento ad altro. Sente che le manca e pensa che sarà felice di avere sue notizie, magari le leggerà seduto a quel tavolo che era il loro legame. Prende un foglio, impugna la penna. Le parole le vengono nuove e semplici e si accorge che ha molte cose da raccontare, e sono lievi. Al mattino dopo va a comprare un francobollo colorato, imbuca la lettera e poi apre la carta e sceglie la prossima tappa, la pelle accarezzata da un vestito impalpabile.

sabato 30 maggio 2009

Un tocco di rosso.

Così non va, così non può più andare. E' quasi un mese che non riesco a strappare il tempo per andare al convento, sempre troppo caldo, sempre troppo stanca per pedalare fin là, troppa strada arroventata e appiccicosa. Tutto mi stanca e vieppiù mi consuma lo stare lontana dal mio nido. Non basta l'avere un filmato postumo del conventino vecchio, con l'edera sui muri e l'orto ancora verde e frusciante, i corridoi silenziosi e bui, i dettagli andati del tempo che fu. E' un video meraviglioso e traballante che per anni ho temuto fosse andato perso, cancellato per registrazioni più impellenti. Invece avevo sottovalutato la professionalità della futura giornalista sociologa Gaione. Dal cassetto ha tirato fuori la mia memoria e dopo quasi 7 anni rivedere quel luogo mi ha emozionato e fatto felice. Nessuna tragedia, era il ricordo di un posto magico, quello che io ho dentro e non potrò mai spiegare veramente. Avevo paura che l'immagine svuotasse le parole, ma altre invece ne ha risvegliate. Mi manca la cella e il mio presente e nel dovere quotidiano ogni giorno rimando. Urge la soluzione, ci vuole un pizzico di vitalità, un tocco di rosso per sconfiggere questa inedia e sopportare il caldo e la fatica. E' un diavolino silenzioso, un pomodoro obeso, un cuore elettrico. Sarà qui sotto a giorni e ancora non ci credo. Mbà.

giovedì 28 maggio 2009

Anche no, grazie.


E' molto strano. Faccio cose, vedo gente, mi busco i malanni sfidando le trombe d'aria. Osservo e penso. Cerco la risposta al diverso da me, a quello che mi suona lontano, curioso e medito. Gli altri. Io e gli altri. Diversi a volte. Verrebbe da dirmi: ma sono io o sono loro? Probabilmente mi manca un qualcosa che allarghi la mia curiosità fino a un "tutto campo". Sono limitata. Mi rendo conto che per quanto curiosa non mi attira un film con scene di cannibalismo esplicito, o sesso estremo, o infibulazioni, torture e chi lo sa che altro. Non apro le mail che preannunciano scioccanti foto reali di vittime e malformazioni. Leggo, a volte, ma non mi importa di vedere, mi è già abbastanza immaginare e capire. Nelle parole "volto sfigurato" trovo già tutto l'orrore della cosa, perché le parole creano un'immagine dentro di me di sofferenza e dramma, quella tragedia già la immagino e la provo, più forte di così non si può, perché dovrei vedere una foto che sulla prima mi impressiona e poi ci faccio l'abitudine? Eppure certe mail, certi film, certi cartelloni pubblicitari hanno un seguito di estimatori. Perché devo ricevere violenza gratuita invece di una cosa che mi desti meraviglia? Forse per pigrizia, ma forse molto per una diseducazione al sentire, o al vedere, molte persone stanno al mondo leggendolo per schemi. Non ascoltano, non guardano. Colgono solo quello che è facilmente leggibile. Tutto è facilitato dai codici visivi. La violenza è vedere uno che picchia un altro, la sessualità una scopata selvaggia, gli affetti la famigliola che fa colazione nel mulino bianco. Esiste un linguaggio codice che si riduce al massimo, senza sfumature, senza profondità, che semplifica e impoverisce tutto. Ma a forza di immagini unidimensionali, atte soltanto alla consolazione o allo shock si impoverisce presto la gamma del possibile. Si cerca allora qualcosa che impressioni di più, si cerca di accattivare provocando stupore, disgusto, terrore. Si amplifica la reazione senza amplificare il messaggio. E la capacità di percezione viene pian piano distorta. Assuefazione allo schifo. Bersi quintalate di immagini velenose che ti saturano e ti portano a sputare malessere, che non sai nemmeno da dove o da cosa proviene. Tutto facile e veloce. Uno schiaffo invece di una chiacchierata. La chiacchierata esige fantasia, deve carpire l'attenzione, è faticosa rispetto a un ceffone, violento e senza sfumatura alcuna. E allora scegliere tra il farsi bombardare di immagini da morgue e il prestare più attenzione. E non alimentare quel filone, cercare un altro linguaggio, non farsi picchiare più, che io non vorrei picchiare a mia volta. Non dare per scontata la semplicità, cercare la bellezza, privilegiare l'eleganza. Credo sia questo che mi fa preferire un vasaio di Saramago o l'intagliatore di Herzog a una pubblicità di Toscani. Cerco altro, io non mi annoio.

martedì 26 maggio 2009

Tragitti.

Giornate strane, pesanti e lievi. Una sorta di centaurite, essendo Arthur costantemente presente. Un piede dolorante, che son caduta con la bicicletta. Ma come? Sei caduta? Hai preso una buca? Ti hanno tagliato la strada? Ti hanno spinto? No, non stavo andando, non sono caduta DALLA bicicletta, sono caduta INSIEME alla bicicletta, mentre la parcheggiavo, geniale no? Turni, tragedie insinuate via sms e per la stessa via sfanculate senza troppe storie, alienazione, palle, faccia ringhiante.
Scherzi dementi, tipo farmi provare cosa si scatena di fronte alla sparizione di Arthur e relativo panico di chi conoscendomi ha capito cosa c'era dietro alla mia faccia smorta mentre mi guardavo intorno vicina al collasso. C'era anche la paura di aver inconsciamente allucchettato alla cazzo il mio amato rottame per farmi ancora più male di quanto ho potuto finora pur di patire ancora e ancora e ancora all'infinito amen. Seghe. Io mi voglio bene, Arthur scalpitava dentro un furgone ad opera di una fava. Ganza ma fava.
Brividi di emozione all'inciampo della ruota in un sampietrino sfuso, sentire la traiettoria farsi viva e sguillante e ritornare dritta senza aver avuto il tempo di far nulla, ancora in sella per miracolo (tzé, miracolo, che parolone inadeguato).
Proprio durante una delle solite pedalate sulla pista ciclabile, probabilmente nel tratto di viale de'Mille un po' in discesa, quando i pedali si fermano e senti quel suono che fa infanzia, quel drzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz e puoi andare di rendita fin quasi al semaforo se non ci sono impiastri che ti tagliano la strada, ho pensato una cosina di quelle solite e ovvie ma che mi illuminano la giornata. Il fatto è che cantavo. Mi girava in testa una canzone che non sentivo da mesi. Mi succede che da un po' di tempo un sacco di roba vecchia la scarto per sopravvenuta consapevolezza: era tutta roba vuota, senza sostanza. Si portava dietro un nichilismo sofferente religioso e gramo che era tutto un programma. O una profezia, visto la fine che ha fatto chi la cantava, quella roba. Invece da quell'area "comune" questo pezzo è riaffiorato, vivo. Avevo visto un video su YouTube e le immagini mi avevano smontata. Roba didascalica. Invece la musica è potente. Il testo non mi era mai tornato molto, prima di quella discesina pigra. Continuavo a dirmelo, Precipito, e invece era roba per niente depressa o distruttiva. Una discesa, un volo in picchiata, accelerazione al massimo, perché non va tutto a finire male in brutti pensieri mentre mi appropinquo al suolo e poi finisco spiaccicata in terra? Non era quello l'umore mio. Precipito, lo so, eppure è bene. Questo cercavo, perché mi serve, sto benissimo. Forse mi son lanciata giù perché non sono più dentro la frase trita "Quando tocco il fondo non puoi che risalire. A me capita di iniziare a scavare". Sempre lodi a Freak Antoni, ma l'immagine che ho visto al semaforo (penso lentamente e penso denso, per cui ormai la discesina era di certo finita) è stata quella di un tuffo su un tappeto elastico. Mi lancio giù perchè più giù e più forte arriverò più alto sarà il rimbalzo. E allora tutto si è legato alle immagini di un documentario intravisto su Sky qualche sera prima ancora. Due uomini, abbronzati, fasci di muscoli e nervi in tensione aggrappati alla parete rocciosa di una montagna a picco. Uno che teme il vuoto e vacilla, esita. L'altro cammina su un cavo d'acciaio teso tra due cime aguzze, quasi spavaldo. A metà cavo apre le braccia e si lancia nel vuoto. Dalle spalle gli esce un minuscolo paracadute. Plana. Il primo dice Scalo a mani nude, senza corde. Per me la caduta equivale all'errore, alla morte, è un fallimento. Il terrore è cadere. Il secondo invece scala e una volta in alto cerca quel terrore per poter cadere, perché quello è cio che viene dopo la scalata: il volo. Ha ribaltato la paura in piacere, è un capovolgimento ricco. Precipito. E rompo il cazzo a mando foto e musica per incuriosire e PLUF precipitare in due. Chi sa farlo con pazienza crea questo, che è proprio come era nella mia testa, ma adesso è realizzato. Grazie Gisesafrori.

lunedì 25 maggio 2009

Lentezza.

Dice via che si va al cinema. Al cinema? Io non ho mica smesso di pensare all'ultimo che ho visto. Io sono ancora qua che penso a quei due che si cercano, a quell'uomo con l'occhio bianco, a quella donna presente, appassionata, avvinghiata a un corpo che sta guardando altrove, gli sfugge nell'assenza, muto. Penso a quel giovane che svanisce nel marasma, ho letto da qualche parte figlio nato mai nato o roba simile e tutto era già detto. Penso a una madre che ha un figlio e pare considerarlo solo in quanto figlio di e non per il suo esser figlio punto. A un'identità vaga, indefinita, fragile e evanescente. Penso a quanto male, alla persecuzione, il potere, il controllo. E che quella non era pazzia, era il rifiuto sano di una violenza fisica e morale, era il non rassegnarsi alla negazione di una storia, di una vita, era la forza da opporre per riaffermarsi interi. Penso a quel dottore che dice aspetta, non è tempo. Aspetta, sei giovane, sei bella, trovati un altro, cambia vita. Sono i rapporti, sono quelli che ci fanno in un modo o in un altro, non si scampa. E allora vanno scelti bene, questi rapporti. E' nella scelta, che si palesa una follia? Penso. Dice via che si va al cinema. Al cinema? Stasera no, al cinema no, non mi ci entra mica ancora un altro film.

domenica 24 maggio 2009

Uhm.

"...è così che dovrebbe essere la vita, quando uno si scoraggia, l'altro si aggrappa alle proprie budella e ne fa un cuore."
José Saramago, La Caverna

Week-end.

La mia settimana non finisce quasi mai al sabato e men che meno al venerdì sera. Si interrompe spesso bruscamente, approfittando di una giornata senza arrivi, senza bastevoli preavvisi che diano il tempo di organizzare qualcosa. Allora ogni fine settimana al mattino presto esco per andare a lavorare e invidio tutti quelli che già dal giorno prima se ne sono andati via, chi al mare, chi in montagna, magari insieme a qualcuno con cui dividere il tempo libero, l'esplorazione, il riposo, l'avventura o qualsiasi cosa uno abbia voglia di infilarci. Mi piace la città con le sue strade deserte, il fresco del mattino in queste giornate che si fanno afose. Mi sforzo di scordare i brutti sogni e mi dico che se se di giorno farò meglio allora di notte spariranno gli incubi. Forse sono tante cose tutte insieme. La nostalgia, i brutti sogni, l'assenza. Non sto quasi mai bene al fine settimana. Mi viene un umore che non so esprimere. Ma la colonna sonora è questa.

sabato 23 maggio 2009

Ape.

Aperitivo atipico/tradizionale. Ma l'importante è versarsi il liquido dal contenitore giusto. Davanti allo storico pacchetto di biscotti di Prato del Mattei immancabile la battuta "Hanno arrestato il Mattonella.".

Sogni.

Non sapevo dove ero arrivata, solo che mi ero allontanata da casa, volutamente, e tanto. Me ne stavo a un tavolo, seduta sul bordo di una strada che pareva la strada principale di un paese o una periferia e guardavo un bus che aveva un'indicazione sconosciuta sul display e mi veniva incontro. Mi sentivo un po' strana lì nel mezzo, mi vedevo nella vetrina di fronte e non sapevo che ci facessi io a quel tavolo e quel tavolo sulla carreggiata. Un uomo, bello, mi veniva a chiedere ogni tanto qualcosa e poi tornava alla sua officina, aveva una tuta scura. E quando iniziava a piovere veniva di corsa e diceva "Bisogna che io prenda la macchina allora, su" e non diceva altro e scappava a prenderla e io pensavo forse torna soltanto dentro alla sua attività, ma lo sapevo che voleva accompagnarmi. Sapevo che mi avrebbe portato e sarebbe stato comodo e risolutivo e semplice, ma mi alzavo e lasciavo il tavolino, mi intabarravo in una mantella e riprendevo le strade sconosciute e anonime. Mi perdevo di nuovo, incontravo altre persone che si erano perse, in qualche vicolo gente che si drogava, gruppetti con grandi ombrelli, alcune strade le cambiavo.

giovedì 21 maggio 2009

Parole.

Il film di ieri sera mi ha smosso un bel casino. Non voglio scriverne, che usciva ieri e quindi si trovano in rete meravigliose recensioni molto più serie di cosa potrei tirar fuori io. Non ne ho letta nessuna e sono andata scevra, senza voler sapere altro, per leggerlo con quello che potevo io. Non voglio scriverne, quindi. Oltretutto non ho certo da spiegare, io, che cosa si vede in quelle immagini o cosa significhi la storia. Non avrei le parole, anche se le ho lette e ascoltate e vissute per più di un anno e mi risuonavano tutte. Ma io, dirle, non so. Avevo pensato di fare un elenco semplicemente delle immagini che mi hanno meravigliato. Ma è roba mia, in fondo. E magari sciupo le sorprese a qualcuno. Ma gli occhi della Mezzogiorno. Il corpo vivo di una donna giovane e bella che si offre ormai priva di tutto, spogliata di ogni cosa per amore. Il sangue rimasto sulla sua mano come sigillo. Le scritte che sfilano sui muri del paese dietro alla gente fuori dal finestrino. La folla osannante che ripete VincereVincereVincere e tutto invece mostra una sconfitta. Immagini. E dentro si smuove roba. Tanta roba. Domande, soprattutto. E penso, penso, penso. Tutto si muove, ma a volte qualcosa si inceppa e non si evolve più nulla, tutto è cristallizzato. Che cosa rende impossibile una separazione? E quello che accade da cosa è dato? Dal fatto che ognuno ha dentro una sorta di codice personalissimo da cui non può sgarrare? Che magari può osare in tutto ma se gli toccano il tasto WARNING salta in aria e distrugge tutto? Perché? Meravigliosi gli occhi della Mezzogiorno, adorante innamorata vinta, meravigliosi gli occhi della Mezzogiorno, dolente muta e impazzita. L'immagine sublime della sua cella piena di lettere, fogli scritti ovunque, parole vergate sulle pareti come campiture, parole che si affaticano in lunghe righe sull'intonaco, gli infissi, le porte. Perché a restare soli ci si ritrova pieni di parole inutili da rivolgere a un'assenza eppure sgorgano e non si sa più dove metterle.

Visioni.

Vincere, Marco Bellocchio 2009

martedì 19 maggio 2009

Propositi.


Nei prossimi giorni mi si accavallano diverse cose, interessanti e non, e spero di riuscire a farle tutte, senza che la pesantezza di alcune riesca a schiacciare la voglia di svagarmi con quelle più lievi. Prima cosa interessante per me tra tutte InCanto 2009 , che richiederebbe tre giorni di ferie e una tenda da campeggio per non perdersi niente di tutto ciò che l'istituto De Martino ha organizzato. Ovviamente non mi sarà possibile, ma spero lo stesso di strappare una presenza. Poi uscite varie, cinema in programmazione, aperitivi forse. Diventano necessari molti piaceri se si impilano molti doveri. La peggior cosa sarebbe starmene a casa a rimuginare senza ricarica. Meglio chiedersi un po' di più e rigenerarsi con del nuovo. Per cui tengo d'occhio la vita mondana della città dal di fuori e pare che abbiano inaugurato l'aperitivo in Piazza de'Ciompi.
Pfui, noi precursori elitari eravamo già lì spaparanzati più di una settimana fa a goderci il fresco e la piazza dall'angolo del mercatino sorseggiando le nostre bevande dissetanti. Perché dopo la cella un posto dove senz'altro sto bene è quella zona lì.

lunedì 18 maggio 2009

domenica 17 maggio 2009

Pelle.

Bypassato l'evento di "All'improvviso Dante" per un turno a sorpresa ho arrancato verso la visita serale alla Specola. Mi sono persa le letture dei canti sparpagliate un po' in ogni angolo di Firenze, ma mi sono goduta per la terza o quarta volta il museo. Oltre all'apertura straordinaria l'ingresso era gratuito e aspettando di imbucarsi nella visita guidata ho visto la mostra sui cristalli. Senza parole. Dei pezzi meravigliosi. A causa del digiuno ho infilato uno svarione dietro l'altro. Ho iniziato ad andare in sollucchero già dall'ingresso, dove c'erano dei tavoli con i ripiani in pietre dure, uno dei quali in pietra paesina e pavimenti e pareti in marmo e colonne in portoro e mentre mi esaltavo il conte mi ha fatto notare con il suo solito aplomb che l'arredamento della sala non aveva niente a che vedere con i cristalli. Sì, vero, ma mi piacciono i sassi. Potessi metterei alle pareti di casa lastre di onice e marmi invece di quadri. Comunque. Inutile pensiero, visto che non c'é manco la casa. La Specola come al solito commuove e affascina, mi ritrovo sempre a pensare ai tassidermisti alle prese con le pelli di animali che non avevano mai visti e con il dilemma di dovergli dare una forma, le persone che nell'800 entravano a vedere quelle cose sconosciute e strane, mi fan tenerezza quelle bestie impagliate con le cuciture minuziose, i pesci passati sotto a una mano di gommalacca o di anilina per mantenerne i colori, alcuni parevano fatti a porporina argento, rilucevano di alluminea (neologismo) spentezza (rineologismo). E poi i barattoli di formaldeide con le ranocchiette i girini le salamandre e l'axolotl, tenero eterno bambino. E quelli che non guardo mai con quei vermacci bianchi e grassi schifosamente inerti. La tenia, che grazie a Antonio Moresco legherò per sempre alla Callas e viceversa, ahimé. I bradipi, il cinghiale, i pangolini. Il dente di narvalo, che generò il mito dell'unicorno. Il cranio dell'elefante, che creò quello del ciclope. E poi la sezione ornitologica. Ma più di tutto, le cere anatomiche. Forse la prima volta mi impressionarono un po' quegli sbudellati, scuoiati, sezionati. Ma non c'é da fare grandi voli, li riduco ad oggetti, seppur nati dallo studio e dalla manipolazione di tanti e tanti cadaveri. Sono i modelli, creati da mani sapienti sotto alla guida dei medici. Cere, terre, dosi da rispettare, tempi di fusione e tecnica prima di tutto. Poi la conoscenza del medico che guida la disposizione degli organi, li accosta, li aggiusta di posizione. Uno dei modelli ha un errore, il diaframma è pressoché all'altezza del cuore. La guida spiega che forse era una malformazione del cadavere preso come modello, probabilmente proprio la causa della morte o forse uno sbaglio di chi lo ha fatto perchè in quel momento il medico era assente. A guardare la cura con cui sono rifiniti e immaginando il lavoro immane di costruire e creare quegli splendori mi chiedo se la gente abbia un'idea di cosa significhi fare le cose con le mani, di quali siano i tempi. Di quanta esperienza serva. Di quanta lentezza e paziente concentrazione fossero capaci gli uomini che hanno lavorato lì dentro. Prima di iniziare la visita la guida ha fatto scegliere ai genitori dei bambini più piccoli se portare i pargoli a vedere le cere o no e ho ricordato il terrore che provai a vedere le mummie. Mi sono chiesta se la notte i bambini avrebbero avuto degli incubi. Poi non ce l'ho fatta più e il digiuno andava assolutamente interrotto. Una lunga camminata fino al Temple Hot Dog per un doppio cane caldo e una ciambellina. E questa mattina mi sono svegliata all'alba dopo un sogno bruttissimo. Io. Io, non i bambini. Io. Molto tempo fa avrei dato la colpa agli scuoiati, ai Donuts, agli hot dog. Ora non me la racconto più. Perché quel peso ce l'avevo già ieri mentre guardavo la banda in Piazza San Marco, mentre accoglievo i signori nella Suite, ce l'avevo mentre guardavo i cristalli, che mi pareva di avere uno di quei malloppi nello stomaco, una formazione trovata in qualche miniera esaurita. Quando stai bene puoi mangiare come un lavandino, al più dormirai agitata, ma sognerai cose belle. Trovo di aver fatto un passo avanti, ma per adesso poco mi serve, non basta a lenire il dolore dello scuoio. Di cui non trovo più la definizione. Era da qualche parte nella vecchia cella 19 ed é opera di Led.

sabato 16 maggio 2009

Posta.


*
Le parole sono importanti. Interrogativi sul valore delle parole che si svuotano e fanno perdere forma a ciò che dovrebbero rappresentare. Banalità forse. Ma gli amici non sono esattamente quelli che "addi" su Facebook o che blocchi in chat. Sono quegli esseri strani e rarissimi che inspiegabilmente quando gli nasce la curiosità o la voglia di qualcosa cercano di tirartici dentro per condividerla con te, ti cercano talvolta anche insistentemente, propongono, ci sono e spendono addirittura tempo per te quando hanno voglia di farti sapere che ti hanno trovato in qualcosa e ti si son sentiti accanto seppur lontani. Roba che per posta ti arrivano petali, sottobicchieri, pacchiregalo, mufloni... Quelli che vogliono bene davvero mi sa che son quelli che realizzano quello che sentono con qualcosa di tangibile. Una azione qualunque. Le persone della tua vita si riducono a quelle con cui hai un rapporto quotidiano, di scambio reale, che incontri per forza o per scelta. Quasi niente a che vedere con quello che succede passando il tempo in rete. E' altro, se non è mezzo. E questa del virtuale è una discrepanza che sempre mi accoltella, again and again. I rapporti sono quelli che sopravvivono alla impietosa prova della realtà, mi verrebbe da dire. Che reggono nonostante i casini contingenti, nonostante i casini passati e hanno voglia di affrontare pure i casini futuri. E a fare da misura a tutto questo ci sono i fatti, le azioni, ciò che viene costruito volta per volta. E anche una sorta di livello carburante, ultimamente. Perché ad un tratto tutto mi si è ridotto a questo. Non più cose belle o brutte, giuste o sbagliate: tutta una questione di carica vitale. Ciò che la alimenta, ciò che la fa scemare. E' sopravvivenza, messi da parte tutti i dettagli. Ho una cosa che perde forza se la lascio andare al solito, invece devo tenerla stretta, difenderla ben bene. Prenderà forma, se la curo.
*Foto rubata a Gisesafrori che non so dove l'abbia pescata.

venerdì 15 maggio 2009

Genio Fiorentino.

Inizia oggi la serie di eventi del Genio Fiorentino e anche se il tempo andrà all'acqua e il fine settimana se ne andrà via in turni gli spettacoli e le possibilità di darsi all'arte e alla cultura non mancheranno. Stasera la scelta tra l'Irlanda degli Whisky Trail in San Frediano o gli stornelli di Marasco sotto Palazzo Vecchio è scontata.

SU’ I’ FILOBUS DI FIESOLE

Su’i filobus di Fiesole
Qui’ggiorno la'ncontrai
E fino a San Domenico negli occhi la guardai
Sarà stato i’mmi fascino
Oppure il mal di mare
Il fatto l’è che pallida la vidi diventare..

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria la voglio sposà”

Fu in piazza nello scendere per colpa della scossa
E.. e feci per sorreggella però sbagliai la mossa
La disse rigirandosi con molta educazione:
” la un faccia tanto i’bbischero... sennò le
do un ceffone!”

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria la voglio sposà”

S’ando su’i’ mmonte Ceceri di fronte al panorama
Le dissi inginocchiandomi “ Vol’esse la mi’ dama?”
Lei la si mise a ridere sciupando la poesia
Poi la cascò n’i’ tenero .... “ Va’ia va’ia va’ia!!!!!!”

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria la voglio sposà”

“D’accordo e un sono un principe ma sempre un bon partito
Io fo le cose in regola mi vole pe’ marito?”
Le la rispose “Giovine se l’ha intenzioni oneste
la venga a casa sabato a fa le su’ richieste”

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria la voglio sposà”

Sto in Via delle Pinzochere assieme a’ genitori
C’ho dù fratelli in carcere, ma presto vengan fuori
La nonna c’ha i’palletico e ‘i’nonno è ceco a ‘n occhio
La zia c’ha i’mal di fegato e i’mmi zio è un po’finocchio

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria la voglio sposà”

A scanso poi d’equivoci ossia di malintesi
la sappia che son gravida armeno di du’mesi
C’ho un figlio dalle monache e l’altra è da’parenti
E la bambina, l’urtima, l’ho messa all’Innocenti

“Che figliola, che figliola, porca miseria porca miseria
Che figliola che figliola porca miseria ……. l’è meglio scappà...

Stagioni.

Apre la stagione in piazza Ghiberti, ci sarà musica, ci sarà qualcosa, verrà qualcuno, ma forse no, allora affanculo i bidoni, non viene nessuno? ci saremo noi Arthur. Tacco di otto, nessun equilibrio, ci importa sega, basta finirla di marcire, in culo alle nonvoglie a letto alle dieci, la vita è breve, ci sono mondi, ci sono odori, frastuoni, volti. Vale la pena di perdercisi in mezzo per potersi ritrovare e sentirsi presenti alla vita. Esistono persone imperfette e simpatiche. Esisto io e quello che ho voglia di vedere, i miei interessi,quello che nutre la mia vitalità. Anche se tardi arrivano i Camillocromo e non fanno più musiche oniriche per film immaginari, sono passati a fare musica per cialtroni ballerine e tabarin e hanno rimedi unici e meravigliosi per noi seduti in prima fila e anche per quelli dietro. Gli ottoni gorgogliano sottacqua come cetacei ebbri e festanti, la fisarmonica recita la sua parte ammiccante e scuote il ciuffo, brillano i lustrini al suono del kazoo. I Camilli trascinano tutti nel tango, nell'aritmia di musiche smembrate e riaccostate in corsa, il piedino non riesce a stare immobile, ti portan via e tutto è rilucente e colorato come in un cartone animato, al secondo spritz la piazza danza e volteggiano le bottiglie, le mutande calano, le donne ballano leggiadre su tacchi altissimi in stracci inutili. E' un'energia primitiva, da bere tutta e ritrovarsi sorridenti nell'odore del fritto di pesce quasi si fosse al mare. Due gocce di pioggia appena hanno allungato il cocktail, eppure a un tratto vedo i musicanti che suonano di tutto e si passano uno sgabello, una sedia e un secchio, una bicicletta, una transenna. Apoteosi, applausi, quiete. Anche se mezzanotte è passata Arthur non è diventato una zucca, il tacco scivola sul pedale ma rientro a casa incolume ugualmente. Dentro, possente, un capovolgimento fantasioso mi porta avanti.

mercoledì 13 maggio 2009

Storie che non scrivo.

Non voglio scriverla, ma c'é una storia adesso ed è quella di una donna che non dà più niente. Perché da dare non ha niente. Si limita ad osservare il mondo e ad esigere. Esige. Vuole. In un certo senso pretende ma sotto sotto non desidera. Si fa abbastanza rabbia e schifo, ma sa che è il momento a renderla così e passerà. Ha bisogno di tempo per rimettere insieme i pezzi che ha perso e scoprire quelli che ha trovato, farli combaciare è un lavoro lungo e di grande pazienza. Cerca incessantemente e ovunque, come se in tutto si potessero trovare risposte. Conferme, spiegazioni, sicurezze. Si butta in faccia al nuovo con addosso una corazza di carta velina, ancora in forse, ancora a caso. E' felice, liberata dalla rete, ormai lontana dal virtuale sedativo. Ha ritrovato il reale ma si è persa il corpo. Dissociata si muove in mezzo agli altri, si limita a nutrirsi, a esistere e a non stare troppo sola. Sopravvissuta, si sente, ma senza desiderio. Non ha molte parole, cerca immagini e si culla in suoni vecchi ma non si riconosce più nella maggior parte delle cose che ritrova. Perché una cosa si trasformi deve necessariamente sparirne un'altra. La farfalla che vola non è il bruco che strisciava.

martedì 12 maggio 2009

Visioni.

Lezioni d'amore, Isabel Coixet 2008
Non ho letto il libro da cui è tratto, L'animale morente di Philip Roth, e non lo leggerò. A volte non riesco a capire se non sono io capace di trovare il messaggio o se effettivamente il messaggio non c'é. Guardo, sorrido, piango, poi mi resta l'impressione di aver soltanto passato il tempo e mi chiedo: Perché?

lunedì 11 maggio 2009

Pedalando.

Quando nascesti te nacque un bel fiore
la luna si fermò dal camminare
la luna si fermò dal camminare
le stelle si cangiorno di colore

l'amore è come l'ellera
dove s'attacca more
così così i'mì core
mi s'é attaccato a te

tutte le notti quando vado a letto
io porto insieme a me il tuo sorriso
e non va via nemmen se m'addormento
e a me mi sembra d'essere in paradiso

l'amore è come l'ellera
dove s'attacca more
così così i'mì core
mi s'é attaccato a te

o vieni bella morina si gioca a carte
e s'ha a fare i giochi che so io
e i fiori e i picche mettigli da parte
e se hai bisogno d'un cuore e ti dò i mio

l'amore è come l'ellera
dove s'attacca more
così così il mio cuore
mi s'é attaccato a te

se tu sapessi il bene che ti voglio
faresti un focolino in mezzo al mare
faresti un focolino in mezzo al mare
e l'acque dei fiumi là
faresti fermare

l'amore è come l'ellera....

domenica 10 maggio 2009

Canto.

Molte parole, pronunciate o solo pensate e tenute al sicuro. Contraddizioni, domande, dubbi, frasi che si affastellano e sembrano alcune pesare come dogmi, altre suonare come slogan. Cerco le azioni e analizzo solo i fatti per dare un senso alle parole da tener di conto e far cadere il superfluo e la struttura inutile e marcia. Non etichettare nulla resta l'ultima frase valida dopo la scrematura. Mi spaventa il loop, tutto ciò che si ripete, la negazione della fantasia, vicolo cieco e senza fiato che non concede svolte. Guardo, osservo, se posso rubo e bevo il possibile, in un'arsura che duole. Registro, fotografo, archivio. Il canto delle rane, i fiori che si donano, le dorature che scintillano. Lascio indietro parole, non scrivo, non fermo e perdo le immagini. Ugo che raglia pieno di voglia di giocare e scuote la testa dalle orecchie mozzate e si allunga fin quasi ad acchiapparmi con un morso, i bei barattoli allegri e ordinati di olio di semi vari e la tela meravigliosamente viva contro lo sfondo della finestra spalancata al traffico, il disegno elegante e incomprensibile degli ideogrammi giapponesi su una pagina di google, gli schemi della biomeccanica in 4 esempi pratici applicati ad una frase alla cazzo, una bottiglia di birra da cui fare un candeliere panciutello, pagine a piccole dosi e lunghi silenzi. Non mi concentro, mi limito all'azione del captare, faccio scorta ma niente pare legarsi al resto e perdo la meta, smarrisco l'obiettivo o forse non ho i mezzi, mi assalgono tristissimi dubbi e mi distraggo in ricordi improduttivi. Pasticcio in lentezza. Ho perso le cere e le patine in qualche scatola che non riconosco più, molti colori si sono seccati, non trovo ancora il fegato di zolfo, devo comprare il paraloid, l'avorio è stato sostituito, Gregorio ancora giace, le pareti sono tuttora vuote. Non mi pare di muovermi, troppo si arena nella lentezza e nell'attesa. Assisto, pedalo indefessa, canto il maggio. Cerco, a volte nemmeno saprei dire che cosa. Sembra così scontato. A parole è facile, giorno per giorno è impegnativo.

venerdì 8 maggio 2009

Visioni.

Louise Michel, Benoît Delépine, Gustave de Kervern 2008

Silenzi.

Ho scoperto una botteghina per magnifiche merende a pochi passi dal convento, piena di salati, dolci, sfizi e troiai. Mi rifornisco e mi intabarro nel silenzio verde. Dall'orto solo i rumori del lavoro. Il fabbro che picchia nell'officina, niente altro. Nemmeno una radio. Solo, a tratti, risate sguaiate e brutte, coccole a un quattro zampe, voci sommesse. Mi manca un po' la musica a volte e forse anche altro. Dovrei sistemare ciò che ancora è provvisorio e mal disposto, riattivare la teiera, disporre tazze e attrezzare scorte, ma non ho voglia di visite. Non ho voglia di nulla, in verità. Provo qualche spostamento mentre aspetto la colla, l'ispirazione, la spinta. Mi sento ancora in forse qui dentro e soprattutto preferisco fare altro e organizzare gli spazi verrà dopo. L'esperimento sul candeliere non ha funzionato che in parte, sgombero il tavolo e passo a fare i balocchi. Riattacco i chioccioli a un intaglio delicato, ripesco la fiaccola e riprendo in mano una mensola trovata in un corridoio della memoria. Fingo di avere un bagno o una cucina dove poterla appendere e la vedo bianca, per cui con pazienza inizio a aprire un giallo, un rosso pompei, un arancio, un bolo rosso, un ceruleo svanito. Verrà un bellissimo avorio, vecchio, vissuto, sporco del tempo che non ha. Deve venire, non voglio credere di aver perso la mano in tanto tempo di inattività. Dal marciapiede mi arrivano i discorsi preoccupati degli artigiani sulla porta della bottega sottostante, la frase ricorrente da diverso tempo a questa parte è sempre "non c'é nulla, non si muove niente" e li guardo bighellonare silenziosi per il convento vuoto come fantasmi disoccupati. Un po' ha ragione chi mi dice che questo posto nuovo di pacca fa impressione così deserto, che quando era come era non ci si faceva caso al fatto che fosse disabitato. Io ci giro dentro, promenade de la mémoire, tengo vivi gli angoli che vanno affievolendosi nel ricordo. Anche io in fondo non sono che un fantasma, qua dentro, uno tra gli altri. E da dietro ai rami carichi di foglie e frutti io non vedo loro e loro non vedono me.

mercoledì 6 maggio 2009

Era d'agosto.


Genius loci

E' caldo, è agosto, la città si squaglia sotto al sole. Io che non ho mai avuto voglia e forza di far nulla ci pedalo in mezzo, senza morire d'afa e umidità. Trattengo il fiato vicino ai cassonetti per non svenire alla putredine. Incrocio a un tratto strade chiassose di non più ragazzi che brandiscono catini e bacinelle di plastica, zuppi da capo a piedi, vestiti e non, secchiate di improvvisata goliardìa per combattere lo stordimento di questo sole che ruggisce. Ci passo in mezzo e proseguo. Salite, piazze deserte che paiono più grandi e le strade solite mi sfilano davanti come una vaghezza. Arrivo. Non c'é ancora un posto per legare la bici, ma ci si arrangia e devo decidermi a buttare la vecchia chiave dell'ingresso principale o tutte le volte é questa caccia all'ingranaggio. Dentro è silenzio. Eco di porta che si chiude pesante e poi il fresco e niente altro. Ho già imparato i nuovi rumori. Così come ricordo quelli vecchi. Il portone di legno che veniva chiuso solo dopo le sette in via Villani, il portone sempre chiuso altrimenti entrano i gatti su via Giano. Due mondi diversi affacciati su due strade parallele, separati dai mattoni messi su dai fascisti. Perché i partigiani non scappassero da un lato all'altro del quadrilatero. Da una parte la necessità di far entrare chi cercava il fabbro il tornitore l'intagliatore e i decoratori. Dall'altra parte il rifiuto dell'invasione del mondo esterno, la cura del proprio silenzio e della concentrazione sul lavoro. Adesso la distinzione non c'é più, l'ingresso principale consente l'accesso a tutti i corridoi e chi entra per trovare il fabbro è libero di passeggiare e guardar dentro a tutte le botteghe. Anzi, laboratori. Niente più mondi segreti o misteriosi, semplici posti dove lavorare. Non sono più i pavimenti che erano, non ci sono più crepe dentro alle quali dormivano i ragni e i loro esoscheletri seccati dagli anni non formano più trine delicate negli angoli delle finestre. Oltre i vetri puliti il cantiere avanza il suo lavoro alacre e quasi niente è più al suo posto. Quei tocchi di nuovo e moderno ne fanno un posto vigliacco all'apparenza. Eppure è come se qualcosa, sotto alle mattonelle di cotto, nascosto dall'intonaco immacolato, dietro a quei cartelli che fanno bella mostra di sé e onorano le normative, sia rimasto silente ad ascoltare il lavorìo. Nonostante i picconi le mazzolate, lo scalpellìo e la demolizione qualcosa è rimasto. Lo sento quando entro da sola, nel tempo che rubo a tutto il resto. E' un nido, un nascondiglio, una salvezza. Sento il legame e la voce del convento quando trovo il corridoio allagato dal temporale e di domenica pomeriggio, nei corridoi deserti, asciugo meticolosamente quell'acqua entrata a far rifiorire i vecchi aloni grigi in fondo al muro. Credo che esista un'impresa di pulizia e forse avrebbero asciugato loro quel macello. Ma non si tratta di robe di condominio, non c'entra niente questo con il passare un'oretta a strizzare il mocio fino a farsi venire le galle. Prendersi cura del convento è questo, non incerare i corridoi o mettere lampade di design. Non ha del tutto a che fare con un luogo, quanto probabilmente con qualcosa dentro che può riflettersi nei luoghi. Per il momento sudo e schiaccio il pulsante dell'ascensore alternativamente con carichi pesanti e a mani vuote, così, senza fermarsi troppo, sentendo il gocciolare lungo la schiena dei liquidi persi. Salire, scendere, risalire, riscendere. In una stanza c'é profumo di vecchio atelier, ci riconosco qualcosa che mi ricorda la luce della vetrata, il signore delle lucertole e il babbo del mio gatto grasso. Nell'altra l'odore della pittura fresca ha lasciato il posto ad un sentore di lavanda e le mensole e i ripiani e lo sgabello tutti nei toni dell'oltremare aspettano di essere appesi in quel profumo tenue. Salire e scendere, salire e scendere, tutto sarà traslocato e in questo profumo di lavanda ricomincerà una storia, quella che mi hanno strappato anni fa, insieme alle radici degli alberi vivi e gementi nell'hortus conclusus.

martedì 5 maggio 2009

lunedì 4 maggio 2009

Ofiuco.


Guardavo quel cielo di poche stelle e mi chiedevo che fine avesse fatto il nome di quella grossa rana lassù.

sabato 2 maggio 2009

Rimedi.

Di tutti i metalli la foglia che mi piace di più é senz'altro la foglia di rame. La più delicata, che col tempo si macchia e diventa antipatica. Tra rospi ci si intende. La lascio ferma e la guardo cambiare, poi a forza di toppe arriva il giorno che la riprendo in mano e la brunisco. Gli strati di bolo rosso erano così tanti e così abbondanti che la pietra lascia una superficie a specchio e tutti i disegni e i colori del metallo appaiono sotto alla patina leggera. Guardando il cielo aperto al sole dopo il grigio cupo di tuoni oso e con un batuffolo di cotone passo la gommalacca sulle quattro cornici. E le sputtano tutte, quattro su quattro, perché a quanto pare non è così caldo come sembra. Ma niente panico, solo pazienza. Prendo il phon e provo a pasticciare, fo qualche esperimento. Correggo i danni e guardo i risultati. Può andare, va bene così, è tutto a posto. Allora mi butto e dopo mesi di consigli e ricerche trovo il coraggio di prendere in mano il candeliere. Ho trovato lo spirito giusto, basta provare... e a ben guardare, alla fin fine, potrò mai ridurlo peggio di come è?