lunedì 3 settembre 2012

Regina.

Davide Riondino e i poeti dell'Ottava

Oggi ho spazzato calcinacci, guardato il danno sul soffitto che si allargava e pensato a molte cose. A Kierkegaard, al buon padre di famiglia, al burattino mosso dalla mano che gli sta dentro e non si vede. Ma non ne scriverò. E mi sono dedicata ai rammendi e a riattaccare i bottoni mancanti alle spolverine. Mentre la piastra scaldava la colla e i fiocchi ormai gonfi si scioglievano ho pensato agli aut-aut in tutte le sfumature, da quelli lievi fino a quelli estremi, quelli che si traducono nella realizzazione massima del mors tua vita mea e lascian lì a farsi domande a cui non ci sarà mai risposta se non quelle che da soli si riesce a mettere insieme. Quanto inebria guardare un altro che si contorce nel dolore, sapere che sta cercando risposte che non saprà mai se sono quelle giuste. Quanta soddisfazione procura questo potere che si abbatte sulla vita dell'altro, che realizzazione porta sapere che con il nostro agire possiamo spengere la vitalità dell'altro?  Onnipotenze. Violenze. Mors tua, vita mea. Da giorni sfioro questa cosa e ci passo vicina camminando. Mi sono fatta domanda e trovato risposte. E non sono andata a Bologna. Ma non ne scriverò. Ho ammannito il fregio che ho ripulito e anche l'applique che ho comprato ormai un anno fa. E stasera sono andata alla festa dell'umidità ad ascoltarmi prima Carlo Petrini che parlava della cucina dei poveri e della necessità di un ritorno all'agricoltura e poi Riondino con i poeti dell'Ottava. Provo un'infinita tristezza alla festa democratica, tra i baracconi che spargono puzzo di frittura, di grigliata, di dolciumi e in quella libreria dove ho pensato Adesso mi prendo il libro su Joyce Lussu, che qua ce l'hanno di certo e invece non è stato possibile trovare un solo libro dell'Asino d'Oro ma c'erano pacchi di libri su preti e papi e il cardinal martini e tante altre tremendissime cazzate molto new age e molto trite che sono lì da anni a imputridire. E il dibattito pallosissimo e cafone ha sforato l'orario e lasciato i poeti ad aspettare seduti. Una roba rivoltante che già dice tutto, per me. Ma anche di questo non scriverò. Invece voglio metter qui una cosa che è in un librettino che lessi anni fa. Sono racconti e il primo mi emozionò parecchio perché senza che ci fosse scritto dove si svolgeva ci riconobbi il lago Scaffaiolo. Verso metà ce n'è uno in cui si parla di una pastora che cantava in ottava rima, Beatrice Bugelli. 

"Perché ricordare questa donna? Perché mi sembra una figura emblematica di tutte le donne di quel periodo, sospese tra le durezze di quella vita e l'eleganza innata dei momenti solenni, la foto importante da tramandare o il poetare a braccio, sapendo che, allora, il più di questa poesia si perdeva per l'aria. Un altro di quei poeti, sparsa in giro la fama di Beatrice, andò a sfidarla, come in una tenzone tra pistoleri del West. Si chiamava Cecco Chierroni, e incontratala, le chiese a bruciapelo:
"Vien qua, poeta dalla musa tosta,/ che spero un giorno fartela passare/ dimmi qual è quel pian che non ha costa,/ quell'uccellin che vola senza ale,/ quel ser che scrive senza penna e inchiostro/ e senza carta e senza calamare/ e se bravo poeta ne sarai / queste tre cose mi dichiarerai"
Questa la risposta di Beatrice, improvvisata lì per lì:
"Son partita di Pian degli Ontani a posta / per venir ste tre cose a dichiarare / il ciel l'è quel pian che non ha costa / l'angiol di dio l'uccel che va senz'ale / dio 'l ser che scrive senza penna e inchiostro / e senza carta e senza calamare / un angiolo del ciel suona la tromba /dimmene un'altra che a questa risponda" .
Ed era analfabeta, era solo una pastora.
(Francesco Guccini, L'uomo che reggeva il cielo)

Se poi la Bugelli, meglio conosciuta come Beatrice di Pian degli Ontani, vi ha incuriosito, vi consiglio Beatrice, di Paolo Ciampi.

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