mercoledì 23 novembre 2011

Prospettive.


Italo Zuffi, Territorio 

Credo di essere in cerca di una sistemazione, esistenziale e materiale, di un riassestamento, di qualcosa relativo comunque a un luogo qualsiasi, perché continuo a cazzarare su ambienti e spazio fisico. E anche dal vero mi scontro con desideri, frustrazioni e spostamenti, logistica e nomadismo irrisolto, spazi vitali, luoghi d'appartenenza e senso di inadeguatezza e orfanità. Che sicuramente come parola non esiste ma ci stava parecchio bene e credo descriva il mio senso di smarrimento o rabbia o stizza quando vedo che un mio spazio non viene rispettato o semplicemente ignorato. Guardo foto di bimbe bionde che se la scialano sotto un castello fatto di due sedie e il sottofondo parte inconscio e spontaneo. Se vent'anni fa bastava un tavolo, adesso probabilmente non mi bastan più neanche le celle, le botteghe, le cantine, i terrazzi e le cucine. Sorrido, se ripenso alla piccola scrivania con sotto i coccini, casetta immaginaria, sorrido, se alzo gli occhi al soppalco, cuccia e nido attuale piena di libri, giornali e casino e parole di telefonate notturne che ripetono tu devi scrivere, tu devi scrivere e mi fanno addormentare senza incubi e affrontare la sveglia dell'alba. Si è come fatto tutto stretto, non respiro più la vastità dei pini. Quando ero piccola e forse non solo io, c'era la mia forchetta, il mio bicchiere, la mia sedia. Adesso la maturità lascia pochi possedimenti inviolabili, ma l'abitudine all'indifferenza o forse alla noncuranza punk abbatte i paletti e pare ci debba essere un tutto di tutti, basta che una cosa venga restituita all'uso. Ma io rivoglio il mio bicchiere, il mio bagnoschiuma, il mio asciugamano. Ci sono cose che sono personali, quasi che avessero un'etichetta invisibile. Ma è invisibile, appunto, perciò la vedo solo io e solo io mi trovo ad avere dei problemi. Mi crogiolo in ricordi di angoli polverosi, regni di ragni con guglie di ragnatele costellate di esoscheletri. Quando passo dal viale e costeggio i giardini, la palestra, le auto parcheggiate, non ritrovo niente, ci sono nuove altalene e panchine dove c'erano gli scivoli, altissimi e di lamiera liscia su cui le cosce nude si appiccicavano e frizzavano, i giochi di ferro, quelli che si arroventavano sotto al sole e gelavano nel freddo da staccarti le dita, con il colore scrostato e rugginosi ma lisci, che ti lasciavano sulle mani un sapore inconfondibile di archeologia bambina. Cerco quegli alberi enormi su cui era possibile salire, non vedo altro che normalissimi alberi, prato triste, panchine con senzatetto annessi. Per combattere certe pesantezze, ritrovare il tavolo, non resta che farsi una passeggiata a Poggio Valicaia e piazzarsi sotto alla meravigliosa sedia di Italo Zuffi che se ne sta in mezzo al bosco. Si ritroveranno quegli occhi e quel tutto in potenza? Dovrò provare al più presto. In realtà l'opera credo abbia un altro significato, quello che ho trovato in rete: c'è un cavo che impedisce di sedercisi, quindi è come avere la libertà e non poterla usare, dice l'artista. Non penso me ne vorrà se io la uso a modo mio.

2 commenti:

  1. Tanta fatica per imparare a padroneggiare il mondo, a considerare tutto "normale", e poi... è quella normalità che ti inchioda al reale, ti fa perdere lo slancio. Immagina con quale entusiasmo da bambina avresti salutato quella sedia gigantesca! Ma l'arte un poco continua a regalarci di questi slanci entusiastici, no?

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  2. Cerco da quando ho letto questo una foto, testimonianza di una notte assurda passata per le strade di Milano, con un'amica, all'uscita da un concerto, e non la trovo. ricordo questa sedia enorme piazzata in mezzo alla città notturna, incontri surreali e tanti bizzarri personaggi. Ma la sedia in effetti riassumeva in sè l'essenza intera di quella nottata. Continuo a cercare...

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