giovedì 29 dicembre 2011

Cammini.

In caso di pericolo, rompere il vetro, in caso di perdita del corpo... Usarlo! E così dopo tanto tempo, troppo, organizziamo un'uscita come ai tempi che furono, io e il Pellegrino. Cacciato fuori lo zaino dall'armadio, ho ritrovato il sacco, le posate, le candele, il materassino, tutto un ambaradan che nemmeno le giovani marmotte. Mantella, borraccia, spille, spaghi, coltello, un cambio. Cappello, guanti, buste. Nello zaino, fruga fruga, l'allenamento non era rimasto. Quello è andato perso, dopo quattro anni e passa di stasi, in giro in macchina o sul pomodoro e a rifare letti e accogliere turisti le gambe si fermano. Si fanno pesanti e perdono l'elasticità. L'itinerario mi arriva per sms un paio di giorni prima dell'impresa: da Reggello a Montemignaio a piedi, con una sosta pernottamento a Pratopiano, dove meriggiavano uomini e bestie. Salita, discesa, chilometri, altitudine. Esprimo dubbi e timori, mi si esorta a non farmi spaventare dai numeri. Stoica, decisa. Vo. Al mattino suona la sveglia alle sei e mi imbacucco all'inverosimile con strati e strati da cipolla quechua, una specie che attecchisce ovunque nel mondo. Prima delle sette siamo in piazza Santa Maria Novella, tutto è ancora buio e in giro soltanto noi e una trenata di zingari. Come una comitiva scendono dall'autobus e marciano insieme, compatti. La città è soltanto loro, non c'è nessun altro e riconosco la donna che la mia amica sarda chiamava Miss Maglietta Bagnata, è la stessa che ogni mattina per 4 anni mi ha sorriso e dato il buongiorno al semaforo anche se non le ho mai allungato una monetina. Mai me l'ha chiesta, solo una delle ultime mattine, come avesse intuito che era quel giorno o mai più. E iole ho trovato una monetina, che anche se non ero ancora certa intuivo che era quella mattina o mai più. 

Firenze Stazione Sita, 8 dicembre 2011

Alla stazione dei pullman, fuori ancora la notte, tanta luce artificiale sparata; il pavimento a piastrelle di marmo è lucido, a righe, e per terra e sulle panchine sta accasciata una variegata umanità randagia. Provo a scattare con la mia Lomo e il pulsante di scatto si incastra. La ripongo e resto schiava del cellulare. Per salvare la batteria, lo spengo. Prendiamo il biglietto, saliamo alle sette in punto e andiamo. La Sita fa una strada buffa, ci porta fino a Careggi, raccoglie una manciata di infermiere che sbadigliano dopo la notte e torniamo a Firenze, mentre il cielo cambia e schiarisce ripassiamo dal centro, dai viali, da dietro casa mia. Che a saperlo potevamo dormire un'ora di più. E poi si esce dalla città e dal traffico. Ogni volta che qualcuno scende, partecipano tutti, qualcuno va svegliato, i saluti e uno scambio di battute, guardiamo il mondo che inizia a carburare, penso al turno di notte, ai sogni interrotti sul sedile di una Sita, il cane che scodinzola sotto la pensilina all'arrivo della padrona. Fa giorno, ma è un giorno di festa e c'è il ponte e così tutto è ancora addormentato o hanno approfittato per fuggire. In giro ci siamo solo noi e chi lavora. Quando arriviamo a Reggello stanno allestendo una festa, una corsa chi in bici chi a piedi, pettorine, traguardi gonfiati da tirare su, bancarelle in costruzione. In piazza altoparlanti fastidiosi ci gracchiano addosso, un gran viavai e folla ingombrano la piazza o siamo noi ad essere ingombranti con questi zaini tra i festanti. Facciamo colazione, prendiamo un po' di cioccolata e mandarini e imbocchiamo la provinciale. Il cemento, i primi passi, l'erba, l'asfalto, il paese che si sgretola in case sempre più rade. Voglia di esser subito nel bosco e timore di bruciare subito tutte le energie. Che dopo tanto tempo, sicuramente, non saranno tante, me lo aspetto. In giro persone che ciondolano, corrono, arrivano da dietro le siepi, chi va in una direzione chi in un'altra, non capiamo quale possa essere il loro percorso, forse si stanno solo scaldando. Basta chiedere un'indicazione e vedi i volti cambiare, è una cosa buffa, vedi gli occhi illuminarsi, ti indicano la via e subito deviano e ti parlano di posti che conoscono, li vedi che mentre ti danno indicazioni si fanno come più alti, che stai dicendo che farai un cammino un po' lungo, ma loro già l'hanno vista quella montagna e sembrano dirsi che tu ne vedrai meno, mai quanto loro. O forse pensano che stai dicendo una fesseria, che in un giorno è troppo e verrebbe voglia di stare a parlare, ma è ancora tutto da fare, non si può far evaporare il tutto nelle chiacchiere. Ci muoviamo: usciti dal paese si prende a salire verso quelle montagnole che sembrano solo sfondo alle casette, lontane, irreali. Sulla sterrata ci viene incontro una macchina alta, forse una Jimny, comunque una roba da cacciatori e si ferma e chiede, dove andiamo, da che parte, perché. E' un cerca funghi e prima di andar via sorride un attimo, come guardando nel vuoto, dice Io la conosco tutta questa montagna e sembra proprio il cowboy di un vecchio film. Mette in moto e ci lascia al cammino. Saliamo. Saliamo, saliamo saliamo. Accanto abbiamo il torrente, l'acqua ci accompagna, è il Resco ed è un sottofondo piacevole. Saltella e scorre tra pietroni puliti e la sentiamo scrosciare, sparire, ripresentarsi. Il bosco è giallo, ocra, rosso e a volte verdissimo di felci o di rovi, l'autunno si mescola tra le foglie, in terra un caleidoscopio di ciottoli e pezzetti di piastrelle colorate, si vede che è una strada battuta da qualcuno, curata, tenuta bene per le macchine. 
Arriviamo all'Acquarossa, la casa ha le finestre serrate, un cartello ci dice che l'acqua è rossa per la presenza di ferro. Passiamo un ponticello, appare e ci struscia le gambe una gattina rugginosa con voce cigolante, tonda e senza coda. Imbocchiamo la salita sbagliata, ignari, e ci troviamo in alto, in un grappolo di case. Nel silenzio, sulla porta bianca di una di queste, come un'epifania, una bambina sta in piedi, bionda, i capelli lisci, magra, attaccata allo stipite ci guarda di sotto in su. Ai piedi galosce, pantaloni e maglietta smilzi, bianchi o rosa, stinti. E' bellissima e ne sarebbe venuta fuori una fotografia da rivista. Ma o si cammina o si fotografa e la Lomo non vuol saperne più. Passiamo, superate le case arriviamo a un bivio e l'errore ci è svelato. Numeri di altri sentieri, siamo su quello sbagliato. Scendiamo di nuovo, torniamo indietro. Raccogliamo dalla siepe di quello che pare essere un bed&breakfast della lavanda, del ramerino, così giusto per, come a voler trovare un senso a questa deviazione. Arrivati in fondo incrociamo una coppietta, un signore con un sacchetto di rametti con signora (una vecchia peraltro truccatissima) che ci confermano la strada giusta. Andando avanti l'intorno cambia. Il bosco diventa faggeta e pian piano spariscono i segni delle auto e dei camminatori. La vecchia strada che percorriamo è bellissima, in salita e faticosa. Il tempo è bello e non fa per niente freddo. I miei vestiti sono troppi, mi fermo ogni tanto per bere, per aggiustarmi gli strati, quando la strada si arrampica troppo rallento, guardo un sasso, un tronco, uno scarabeo che si arrampica su una foglia, una cacca dentro a un tronco cavo, una scusa qualunque per riprendere fiato. Una stambeccata senza soste fino a Pratopiano, dove arrivo aiutandomi con il bastone e  sudata e dolorante. Le gambe iniziano già a chiedere il conto, spero ardentemente di fermarci, ma il rifugio è molto malridotto. Ha due piani, si accede da un lato a quello di sotto da un ingresso la cui porta giace a terra, inservibile e poi risalendo il costone e girando intorno c'è l'altro ingresso.  Accanto ci sono delle rovine di quello che era un altro rifugio probabilmente, semidistrutto.
La finestrina del piano superiore fa molto Heidi, ma il pavimento è malmesso e sulla porta c'è un cartello che dichiara l'inagibilità della struttura. Impossibile fermarci qui. E poi lo so come funziona, è meglio arrivare al rifugio successivo in modo da aver macinato il grosso dei chilometri oggi. Mangiamo, seduti su una pietra umida di muschio, liberi dagli zaini. Ci sono due enormi faggi i cui rami formano un maestoso intrico. Bevo un succhino d'arancia. Un paio di uova di quaglia, un cubetto di grana, un mandarino, un po' di cioccolata. 
Avevo dimenticato quanto poco basti per riprendere energie e quanto sapore abbia ogni singola cosa mangiata nelle soste. Le mie gambe sono arrivate già al limite, so che il sollievo della pausa è un'illusione e che quando ricomincerò a camminare saranno cazzi, ma non possiamo meriggiare oltre e dobbiamo raggiungere il rifugio prima di buio. C'è da fare la legna, da accendere il fuoco e girare nel bosco in cerca di un rifugio mai trovato prima non mi alletta. E così ripartiamo, per salire, salire, salire. 
Ad ogni passo, smoccolo. Sento l'inguine dolere ogni volta che alzo una gamba. Mentre arranco nella faggeta, su un sentiero che non vedo perché le foglie formano una soffice coltre, mi accorgo che incespico e scivolo. Sotto le foglie sdrucciolo sulle pietre bagnate, un paio di volte trinquello e mi riprendo al volo, camminando come un'automa. Il pellegrino sparisce oltre  le curve, lo raggiungo a volte che sta seduto                  ad arrotolarsi una sigaretta, qualche volta lo perdo e perdo i segni del CAI, salgo a casa intuendo la direzione e pensando che salire così però mi stronca ancora di più le gambette. Sudo così tanto che mi sento le gocce cadere dal mento. Il sole illumina la faggeta, che brilla dorata e rossiccia, è bellissimo e io sto patendo come un cane perché non ho camminato per anni. E mi sento grossa, pesante, vecchia. Ho scarpinato cercando di non far andare i pensieri e di fermare il flusso di accidenti a me stessa e alla mia bella idea di mettere alla prova il corpo, credo di aver raggiunto anche quello stato di trance necessario alla marcia e di aver visto milioni di quadri di Klimt, seguendo alla rinfusa i segnetti rossobianchi sui tronchi, a volte chiamando il pellegrino per un indizio quando perdevo la direzione e il suo zaino verdino era sparito all'orizzonte. Ho guadato i ruscelletti saltando da un pietrone all'altro, cercando il percorso e l'equilibrio, ho macinato passi uno dopo l'altro come avessi ingranaggi al posto delle gambe, a ogni passo fatica ma ho

Rifugio Bartolesse
continuato stoica, ripetendomi Tanto prima o poi arrivavamo per forza e alla fine, in mezzo alla faggeta, in cima a una collinetta dopo infinite svolte dietro le quali non c'era mai l'agognato premio dell'arrivo, eccoci. Un paio di tavoli nel bosco, con le panche e pali incrociati. Siamo arrivati. Appare come dal nulla un rifugino scrauso, minuscolo, un bugigattolo  meraviglioso che ci permetterà di fermarci, sederci, riposare le gambe. Peccato che il rifugio sia abbandonato da tempi immemori e fradicio all'inverosimile. Ma non c'è molto da scegliere. Mi tolgo lo zaino dalla schiena, raccogliamo un po' di legna, tutto è bagnato e scivoloso, mi metto i guanti per non raccogliere viscidi lumaconi. Molti grossi rami si sbriciolano, sono molli e inzuppati, ridotti a una specie di pasta bianca. Il pellegrino inizia i tentativi per accendere un fuoco. La carta che ha è leggera e si inumidisce subito, la fiamma verde non scalda e non asciuga neanche i rametti più fini. La tavoletta di diavolina brucia ma in mezzo a quell'umidità non accende niente. Mi lascia con una candela accesa sotto a degli stecchini mèzzi  e va a cercare legna. Sopravvivenza. Guardo le fiammoline che tremano e si fanno sempre meno convinte. Nella borsa trovo la Moleskine. Strappo un foglio e ne faccio una pallina. Strappo un foglio, ne faccio una pallina. Metodicamente strappo e appallottolo, faccio una bella piramidina di carta e stecchini. Sii veramente utile, Moleskine. Aggiungo uno stecco ogni tanto solo perché si asciughi. Lentamente, con calma, mi conquisto il fuoco. Appoggio rami un po' più grossi vicino al calore, la fiamma sale, scoppietta, canta: è andata.
Quando torna il pellegrino, mi sento fiera, e utile. Forse per un buco nel muro 
accanto al fuoco o per l'umidità eccessiva o per il camino  difettoso, non si riesce a stare in piedi senza tossire e lacrimare. Ci appollaiamo. Dal soffitto gocciola l'acqua. Il fumo invade tutto e si respira solo stando ad altezza gatto. Ma abbiamo un tavolino e due sgabelli, una finestra aperta, una porta che non chiude. C'è tempo per organizzarci al meglio. Il fuoco regge e cresce, accendiamo le candele, prepariamo per la cena. Il pellegrino attrezzatissimo ha dei sacchi e del pluriball con il quale riesce a chiudere la finestra e isola il pavimento bagnato. Sistema le luci, raccoglie altra legna. Con un potino la sego a pezzi. Torna dalle sue esplorazioni con rami di ginepro che sul fuoco scoppiettano e profumano, ci buttiamo il ramerino. La lavanda è sparita nella mia tasca bucata, credo sia tuttora nell'interno del mio piumino. Fuori il bosco cambia, la luce scende e in lontananza si vede la vallata riempirsi di nuvole bianche, poi dorate e luminose, luccicanti di sole che va giù.
Il sole tramonta


Dentro abbiamo il fuoco, le salsicce da mettere sulla brace, il formaggio, il pane buono da fare a fette, il vino, il caffè e il panforte per il dopo cena; Fa caldo e possiamo asciugarci i calzini; fuori il sole tramonta e sulla faggeta cala il buio lentamente. Il silenzio no. Ascoltiamo gli allocchi, si sentono rumori strani che non sappiamo individuare. Anni fa ricordo che spesso nella notte si sentiva il campanaccio del cavallo o il tintinnìo dei campanellini appesi al collare di un cane passare veloce. Mangiamo, mangiamo tantissimo, e di gusto. Parliamo, ma solo dell'essenziale o di cose che vanno dette veramente. Mi sento un poco inadeguata, che verrebbe facile il silenzio di tanti anni fa, ma dopo tanto tempo, sarà lo stesso silenzio? Sorge la luna piena e il bosco è luminoso. Non esco, mi impigrisco al fuoco, stanchissima. Il pellegrino esplora la notte e torna con altro ginepro. Tutto profuma di calore, di faggio, di ginepro e rosmarino. C'è anche la resina lasciata da Ginu, e il suo bracere che ondeggia trasforma il rifugio Bartolesse in un luogo di lusso. Sul viso se mi tocco ho come una polvere, penso al fuoco, alla fuliggine, poi mi accorgo che è sale, è stato il sudore della camminata e se mi stropiccio gli occhi bruciano. Passo la notte quasi del tutto sveglia, guardando il fuoco e ascoltando il respiro leggero del pellegrino che dorme imbozzolato per terra nel suo sacco, col cappello. Veglio. Un po' perché la porta non chiude e mi arriva il freddo nel culo. Un po' perché non c'è verso di stendersi nello spazio angusto e dormire per terra con i piedi quasi nel fuoco non è comodissimo. La legna scoppietta e spara tizzoni e me ne sto seduta a guardare che non atterrino sul mio sacco. Il pellegrino dorme, un paio di volte lo sveglio perché il fuoco richiede attenzione. Il tempo si dilata, la notte è lunghissima. Mi addormento quasi al mattino, solo qualche ora. Mi alzo per prima, perché so che avrò bisogno di tempo per fare la strada che manca con le gambe e la schiena a pezzi, ma i tempi del pellegrino sono più lenti e così io inizio a rassettare, ma prima si fa altro fuoco, si fa altra brace e c'è il caffè, la salsiccia avanzata, la frutta, un brunch in piena regola prima della partenza. La strada per Montemignaio si preannuncia tutta in discesa, comoda, la usano le jeep, non c'è bisogno di correre e ieri abbiamo percorso già quindici chilometri. In un paio d'ore arriviamo e possiamo prendere il pullman delle tre o l'ultima Sita delle cinque. Pieno relax insomma. E così riprendiamo le nostre carabattole, puliamo, ci incamminiamo con addosso le mantelle. Il bosco è nebbioso e umido, piove e tira vento. Raggiunto il crinale siamo sulla strada. Sì, potremmo andare sulla strada e cambiare i piani, ma mi impunto e dico Bé, se avevamo detto Montemignaio, che sia. E imbocchiamo il sentiero. Che va giù dolce, largo, comodissimo. Pioviscola e sono abbastanza a pezzi ma felice e soddisfatta. La faggeta lascia il posto agli abeti e si va in scioltezza guardando i funghi, alcuni rosa, altri verdi, la loro carne bianca spicca sulle foglie. Procediamo guadando le pozze e evitando il fango. Raggiungiamo delle case, tutte serrate. Il sentiero secondo i segni devia bruscamente. La strada continua dritta. Consultiamo le carte. Non è ben chiaro. Deviamo. Infiliamo nel bosco, seguiamo un percorso che torna indietro, sale, si inerpica, si storce e si annoda. Ci perdiamo. Ci troviamo a scavalcare tronchi e rami lungo un sentiero segnato sugli alberi ma inesistente nei fatti, sul crinale coperto di foglie bagnate e sguillose ci sono i capanni dei cacciatori, abbandonati. Ricomincio il mantra di moccoli, che ho voluto io seguire sto cazzo di sentiero e me le merito queste deviazioni a vuoto senza meta. E così andiamo. Semplicemente, andiamo. Non si sa bene che sentiero sia, dove porti e in quanto tempo, ci sono dei segni, li seguiamo, tutto lì. Mi dico che forse stiamo tornando indietro, magari stiamo andando verso un'altra meta, magari arriveremo a qualcosa quando sarà buio da un pezzo. Il mio umore, devo dire, a quel punto non era più troppo gioviale. Forse la notte insonne, forse la pioggia, forse la sauna nella mantella e i quindici chilometri di salita del giorno precedente. O l'idea dell'ultima Sita per chi lo sa dove. Abbiamo camminato non so se a vuoto in cerchio o che. So che a un certo punto il numero del sentiero che stavamo percorrendo sulla nostra mappa non esisteva e si è poi trasformato in un vago Sentiero Natura. Forse un percorso didattico. Non che fosse un brutto andare. 

A un tratto Montemignaio è apparso all'orizzonte, vicino e lontanissimo. Abbiamo incrociato una strada che ci indicava la direzione per il sentiero che avevamo smarrito. Una via larga, dolce, di quelle che uno fa bene anche con la jeep, per dire. Siamo scesi giù fino al paese e abbiamo raggiunto la fermata del pullman. Dopo tanti alberi e tante foglie si fa fatica a riabituarsi all'asfalto. Alle tre abbiamo raggiunto la panchina con le seggioline aggiunte, alle tre e dieci ci ha raccolto la Sita. La sera, a letto, ho chiuso gli occhi e continuavo a vedere la terra corrermi sotto le scarpe, le foglie, gli alberi. Un po' come quando vai a cercare i funghi che poi continui a vederti zolle e anfratti e foglie e erba o quando vai a pescare e poi continui a vederti il galleggiante. E' stata una camminata faticosa, il pellegrino non mi ha ancora rivelato cosa ha detto il navigatore e non mi ha passato il percorso, mi ha detto solo che abbiamo disegnato un monte e abbiamo fatto un sacco di strada e che d'estate sarebbe bellissimo da rifare. E' stata una prova dura per il fisico non allenato e per tutto quello che dentro si è smosso, tornando a galla e cercando il nuovo come a chiedere Embé, prima era così, adesso? Che cosa c'è adesso di meglio a sostituire? E' stata una mazzata che ha chiesto il conto schiantandomi con tre giorni di mal di schiena. Eppure la sera, dopo la doccia bollente, nel letto, chiudendo gli occhi, speravo di poter già organizzare la prossima. Sarà con la neve, dice. 



                                                     Montemignaio, 9 dicembre 2011






7 commenti:

  1. Che parole meravigliose! E che spirito di avventura! Io è una vita che non mi azzardo a fare più di 4/5 Km a piedi! Sono veramente piena di ammirazione! e il tuo racconto è scritto così bene che commuove.
    Noemi mammadimontagna.

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  2. bellissimo, ci hai portati con te e abbiamo gli stessi dolori alle gambe! come mi mancano le passeggiatone nei boschi, ma forse mi mancano ancora di più gli anni della gioventù, quando mi era ancora possibile scarpinare per ore. Nihil

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  3. poi non ti ho più chiesto. ora che il corpo ha digerito i passi, come si sente?

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  4. Uh, ci ho rimesso le mani, ho riletto e corretto. Quanta roba mancherebbe ancora!

    Mela: ecco qua, le mie cose significative insieme :D
    Noemi: benvenuta! Anche io pensavo di fare una semplice giratina tanto per riprendere il filo delle camminate, ma il pellegrino è uno stambecco e non ha alcuna pietà.
    Nihil: avrei preferito condividere la saporita cenetta e il vinello, il calduccio e i profumi, i dolori alle gambe son stati tremendi.
    Stima: benissimo! E ancora meglio quando ho scoperto che anche il pellegrino ha patito, non sono stata solo una zavorra.

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  5. Sembra un anticipo di quel che Ale mi farà affrontare (sarebbe fiero di te per 'sta scarpinata) anche perchè i scarponcini da Trekking (Quechua, appunto) me li ha regalati per Natale! Gh!

    Isa

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