domenica 30 ottobre 2011

Visioni.

This must be the place, P.Sorrentino 2011

Ancora ci ripenso, forse perché il giorno dopo ho scartabellato su iTunes per ritrovare della roba e ogni tanto ascoltando Stop making sense ho dei flash su alcune scene del film e sorrido. Poi smetto, che ripenso alla colla densa della depressione e a quanto facilmente si stempera nel muoversi. Cheyenne imbocca il vialetto della villona con il suo passo da bruciato e un trolley minimal onnipresente e senza volere o accorgersene finisce che si stacca da un rapporto confortevole, rassicurante, soffocante, incastrato su dinamiche madre-figlio più che uomo donna. I fili collosi si allungano fino a dissolversi, restano addosso altri microcosmi variegati, come i coriandoli tra i capelli dopo un veglione. Oplà, trasformazione! Mille punti! Eppure. Sui titoli di coda già c'era un certo che, un senso di "sì, ma l'amico di famiglia è tanta roba in più a livello di personaggi" ma anche di "eh, si vede proprio che è un film mezzo americano"...  E la fotografia, che bella la fotografia, ma se anche negli States c'è da spaziare in prospettive mitiche sinceramente va anche tutto a finire nel già visto dell'on the road e gli scorci di Sabaudia erano più succulenti, secondo me. O forse mi frega perché oramai si è visto quasi tutto, il bello sta nell'insolito. Un po' come Ovosodo di Virzì. Non era certo niente di nuovo, ovosodo, giusto il trito e ritrito neorealismo rimasto azzeccato al cinema italiano, ma era ambientato al Pontino e boia dé, chi ce l'aveva mai avuta un'idea così. Insomma, Cheyenne, convince? Non convince? Gli mancava qualcosa per davvero o manca a me che guardavo? Il diventare adulti deve esser per forza un'entrata nel grigiore (e pure nel vizio)? E allora perché si dovrebbe trovare il coraggio di abbandonare i paramenti? Meglio i colori psichedelici e il rossetto. Eppure non c'è da starci troppo a pensare, è tutto sì, promosso in pieno, a prescindere. Poi a leggere questa recensione torno a pensarci. E ho pensato che è un film per vecchi, che ancora sbrodolano per i Talking Heads, si inteneriscono pensando a quel rincoglionito di Ozzy ormai pieno di cagnolini, che notano le sfumature di colore quando cambiano di botto nel finale (forse perché si son fatti troppi acidi), si crogiolano nelle citazioni di pelosissimi animaloni ruminanti aldilà del vetro e fantasticano su pellerossa surreali. Mi sento vecchia ma ringrazio di non aver idea di chi siano i Tokio Hotel e che la mise di Cheyenne mi porti a pensare solo ai Cure e a tutta quella new wave cupissima e depressona da piattolone gotiche che ci sciroppavamo al giovedì sera, anfibi, vodka e cresta insaponata. Se c'entra dell'orrore in questo si tratta tuttalpiù della maglietta incarnita dei Fifter'f of Merfy che il Demonio ha indossato per tutti gli anni in cui io l'ho incontrato per Firenze.

4 commenti:

  1. Cheyenne a me m'ha convinto tantissimo, ma forse perche' anche io sonoin quell'eta' in cui l'Alzheimer ti fa ricordare benissimo Ozzy e Siouxie ed ignorare totalmente i Frocio Hotel...l'Amerika l'abbiamo vista, e ne ho nostalgia...la cosa che mi ricordo di piu' del film e' la nostalgia feroce per le strade americane, e per gli incontri assurdi e meravigliosi che si fanno in viaggio....che un po' si riflettono negli incontri assurdi e meravigliosi che si fanno in Internet, se identifichi la ragnatela come una strada in cui tuffarti senza remore...
    E d'altronde come diceva quel tizio? Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare...

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  2. Allora, intanto, giusto per contraddirti quando dici che non fai rubriche, volevo dire che questa tua rubrica "visioni" mi intrippa più di un acido col buon vecchio Ozzy.
    Nutre quella parte di me che a malincuore ho messo a stecchetto rinunciando momentaneamente al buio in sala.
    Secondo: quindi, proprio perchè oramai s'è visto tutto e proseguire in questa gran rottura delle tendenze e degli status giovanili finisce per essere una perenne reiterazione di piste già battute, mi chiedo se i tempi non siano ormai maturi per svoltare anche da questa gran palla del disagio giovanile, del malessere generazionale e cercare la "giovanilità" altrove, la novità nei contenuti più che nella forma, l'anticonformismo non necessariamente nella sregolatezza e negli stili di vita sballati, che durano appunto il tempo di un'adolescenza un po' tirata per le lunghe.
    (io commento senza aver visto il film, sulla base di ciò che scrivi tu. Magari non c'entra niente col film eh!)

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  3. SuS: io l'unico regista italiano che vedo far qualcosa di diverso, una ricerca, è Bellocchio. Tutto il resto è documentario, neorealismo piatto, di denuncia o meno. Storielle, comunque, più o meno futili o crude, ma senza mai un guizzo. Un'amica dall'occhio fino mi ha dato una chiave di lettura ancora più inquietante di questo film. E mi son resa conto che si coglie davvero quel messaggio e forse pure quello, bevuto inconsciamente, ti fa venire l'orticaria. Praticamente, nel tripudio del politically correct il ritratto finale del persecutore di Aushwitz suona molto "anche i nazisti piangono".

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  4. Ah, dimenticavo: ho seguito il link alla recensione che hai segnalato e così ho scoperto un blog fichissimo! ;)
    Grazie.

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