martedì 11 maggio 2010

Occhi.


Giorni e giorni di pioggia, di vento, di sole a strappi. di molto lavoro, di connessioni sparite e poi ripristinate. Il virtuale assente, la vita vera densa e piena di ottimi ripieghi, di imprevisti, soluzioni sorprese e incontri. Parecchie pagine sfogliate e lette, parole, ricerca riagguantata, sogni che finalmente si srotolano e interrompono il loop, fili che si strappano e lasciano liberi. Qualcosa si sfilaccia e si riprende il largo, in navigazioni placide, non più trattenuti. All'alba, nella pioggia, prendo autobus per gite panoramicoturistiche e dal piazzale guardo nella nuvola bianca che copre Firenze che ancora dorme. Temuti incontri burocratici per addii definitivi svelano storie che sembrano voler per forza perpetuare il diario del convento. Anche il geometra incaricato di riprendere in consegna i locali posti in via ***** ***** ***** nell'immobile denominato ****** ********* finisce per raccontarmi che ha trascorso lì le estati dei suoi anni scolastici, nel seminterrato, per la precisione, ma per lo più in giro a far consegne con un triciclo con il portapacchi. Mentre parla mi chiedo se fosse quello stesso trespolo che sostava nel corridoio azzurrino e penso anche all'intagliatore che tredicenne sfidava i bombardamenti su un attrezzo simile e dopo un anno si stufò e ebbe il coraggio di affrontare il padrone "Voi v'avete bisogno d'un cavallo mica d'un apprendista!" e allora si risolsero a metterlo vicino a un banco dove potesse guardare come si intaglia. Non intagliare. Guardare. Esistono ancora mestieri che si apprendono? Divago, la mente in giro, ma ascolto, seguo perché il geometra forse racconta per via della pena che forse ha letto nel mio guardar fuori, nell'aprire e chiudere inutilmente gli scuri o l'esitazione nell'entrare appena ho visto la stanza già pulita, violata, invasa da estranei atti alla pulizia quando ancora non avrebbero dovuto aver copia delle chiavi. E quelle parole, non chiacchiere, hanno reso la mattinata lieve, perché era un po' come quelle volte in cui incontri l'innamorato che non ti vuole più. E sai che sta finendo, sai che non ci sarà un domani e il tuo desiderio frustrato ti sconvolge nel non capire come sia successo e così, impotente, continui a guardarlo, quasi a voler rubare almeno un fotogramma mentale che sia ricordo e cerchi forse di cogliere l'immagine finale, un'icona dell'addio. Ma il desiderio era svanito da tempo, l'innamorato era sparito e io lo trascuravo. Così nella giornata grigia, sotto all'ombrellino rosso, mi vengono offerti un passaggio e fiori gialli, squillanti nell'aria bagnata. Ho già portato via abbastanza, non prendo altro. Ringrazio, infilo la discesa e leggera vado a prendere un bussino per raggiungere il lavoro, la vera giornata che inizia dopo questa bolla inaspettata. Quello che immaginavo sarebbe stato un doloroso strappo non ha poi avuto alcun sanguinamento apparente. Ho già sanguinato a dovere tutto il sangue che potevo. Piuttosto un senso di sollievo, di svecchiamento, di liberazione. E anche di colpa, per questi pensieri. Il diario del convento continuerà ugualmente in tutte le storie che comunque ho raccolto tra quelle mura in tempi ormai finiti, ma non tra quelle frasi ricurve e ruffiane che strisciano sul bianco. Non dietro a quelle porte a vetri oscene e indiscrete, pornografia, la creazione disturbata, l'intimità svelata. Mi sistemo sullo sgabello girevole, agito una tempera ancora fluida. Devo far scorta di un sacco di colori ormai secchi. Dall'altro lato della parete, appena oltre la finestra, rumori d'amore frettoloso, chiacchiere da social network, futili ciaccole e birignao indisponente, musica alta. Eppure trovo tutto il silenzio necessario e una pace che nel convento, ormai deserto, non esisteva più. Per sempre impregnato dei tempi che furono, ma spersonalizzato dalla ristrutturazione, il convento era diventato prigione interiore e non più cella, oramai. Era davvero tempo di evadere, monsieur.

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