venerdì 15 gennaio 2010

Porte.

Sempre, i rapporti, si fanno in due. Occhi negli occhi, pelle con pelle. Credo di aver capito questa ovvietà parecchi anni orsono. Ma veramente parecchi. Quando ero ancora un topino cieco e brancolavo in nebbie di indifferenza, fumi di nero e viaggi acidi. Però già cercavo e un viottolino nascosto l'avevo scoperto, evidentemente. E' un cubetto praticamente antico, un reperto archeologico che se volessi stringerlo dovrei ricercare sotto alle fondamenta di qualsiasi cosa sia quella che son riuscita a costruire da allora. Eppure non c'é niente di scontato in questa banalità. E più vado avanti più vedo in giro teatrini agghindati di sipari in velluto con nappe dorate, presepi religiosamente decorati e boule de niege pacchiane dentro le quali giace la neve bianca dell'annullamento. Assegnate le parti alle comparse, o semplicemente il posto, che a volte anche il parlare è di troppo, tutto ha da restare decorosamente perfetto, la realizzazione di quello che mammina avrebbe desiderato, o forse l'avverarsi di un sogno iniziato giocando con Barbie, Ken e la loro casa dei sogni. E le persone, relegate a comparse, nell'immobilità, scompaiono. Scompaiono agli occhi del regista, che guarda solo all'opera finale, all'insieme, ma soprattutto al proprio esser regista. Non ha il coraggio, di reinventarsi in altro. O forse non ne ha capacità. E allora quando a un tratto gli si licenziano le comparse la colpa non è mai di quel mancato rapporto occhi negli occhi, no, la colpa è di qualcuno che ha scompigliato la scena. Tristemente, la rabbia e l'invidia vengono ruggite al mondo e rovesciate a caso, comunque buttate fuori in vomito acido. Quel vuoto non si colma, quegli occhi che non sanno incontrarne altri restano vacui, solo la bocca si muove, che solo la rappresentazione, conta. Le persone annullate per farne marionette a volte hanno gambe per riprendere un cammino, a volte si accasciano senza più fili, incapaci di rialzarsi. Io assisto, nel senso che guardo, sfilo accanto agli orrori e passo. Mi arriva da lontano lo strepitare e il battere i piedi, mi disturbano le urla isteriche della diva contrariata e mi volto giusto il tempo di chiudere la porta con grazia. Che anche questo ho imparato. A lasciar tutto in ordine per chi verràdopo. Lo si impara semplicemente frequentando molto i rifugi di montagna. E la stessa cosa va fatta nei rapporti. Io non ci sono già più, sono soltanto passata lì per caso. E vado. A caso, ancora. La mia Barbie non aveva case dei sogni, ma robe di misure sconclusionate che non si accostavano. Armadi che le arrivavano agli stinchi e lavastoviglie alte quanto lei. Non aveva la vespa rosa con le cromature, aveva una sorta di pulmino Volkswagen rosso e bianco col tettuccio aperto grazie al quale poteva sedercisi dentro. E soprattutto non aveva un Ken, se la faceva probabilmente con i peluche, con qualche bambolotto stupido e con tutti i playmobil, che erano spesso meccanici, cavalieri, cowboys o pirati piuttosto che medici, avvocati o ingegneri. Mi toccava spenderne un sacco, di fantasia, per mettere insieme quella razzumaglia. Forse per questo un po' mi sono salvata dai teatrini, giro su un pomodoro elettrico con adesivi flower power e raccolgo i lampadari al cassonetto.

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