martedì 30 giugno 2009

Cartoni, impressioni.

L'enigma di Kaspar Hauser, W. Herzog
Pensavo a ben altre immagini, eppure al momento del click ho scelto questa e allora questa sia. Forse quello che cercavo parte da ben più lontano di quanto io pensi e necessita di un cappello romantico, vista la scelta della foto. Non mi spavento, come ho imparato da un maestro di quest'arte appoggio le dita e lascio andare il filo del pensiero. Forse andando avanti capirò proprio perchè ho scelto questo incipit. Kaspar Hauser. Kaspar Hauser è una sorta di simbolo del puro, riprende credo quello che era il mito del buon selvaggio, forse; colui che scevro da qualsiasi sovrastruttura può leggere la realtà e trovarla distorta dal dogma e dalle leggi sociali, dalle regole morali e dalle dottrine che accecano tutti gli altri. Kaspar appare come dal nulla, non ha mai avuto rapporti sociali, non sa cosa sia il mondo. Eppure apprende e assorbe con avidità tutto ciò che arriva dall'esterno e con la sua sensibilità si impegna a comprendere, a dare risposte, a porre domande. L'enigma forse per qualcuno è la sua inspiegabile apparizione dal nulla. Per altri potrebbe essere la sua diversità. Quella capacità di saper vedere senza fedi ciò che lo circonda. E' una presenza che smuove, Kaspar. E questo fa di lui una vittima facile. E'un elemento di disturbo. In quanto tale deve essere annullato. E viene eliminato brutalmente a livello fisico e poi a livello umano. La sua umanità, tutta la sua sensibilità vengono ridotte da una visione meramente organicista, la sua diversità viene spiegata con una stupida autopsia, confrontando le misure del suo cervello con quelle della media. Sì. Forse ritrovo proprio il filo, mi torna tutto. Annullamenti. Da quelli partivo, ho scelto infine la foto appropriata. Perché prendo le misure dei miei annullamenti personali nel rapporto con gli altri. Mi balocco con immagini da bambini per trovare risposte ai corpi dei grandi. Penso all'indietro. Quando eravamo piccoli era facile e senza tante seghe funzionava. Giocando scegliersi i ruoli: se c'erano un maschio e una femmina uno era il babbo e l'altra la mamma. Uno Lupin e l'altra Margot. Lei Candy Candy lui Terence. O Anthony, ma troppo sfigato. O lo zio William ma troppo indaginoso. Robe così. Automaticamente. Se si era due bambine idem, la storia, magicamente, non cambiava. A quel punto una legge strisciante assegnava a una delle due il ruolo del maschio. Che cazzo, non si poteva giocare a Candy Candy e Annie? Alla mamma e alla zia? NO. Non c'era sugo, non ci passava nemmeno per il capo. Perché no? Mah, che dire, forse perché si era sane e si intuiva di già che il sugo stava tutto in quella differenza lì. Che tutto il meglio era in quello strano mix di maschile e femminile che si cercano. Veniva automatico. Un po' più grandi c'erano Mimì e Midori, vero, ma lì ci si stroncavano le braccia a pallonate e quello ci distraeva dal fatto che in quel cartone maschi non se ne vedevano praticamente mai, probabilmente tagliati dalla censura italiana, chi lo sa, ma esattamente come nella nostra realtà di donnine in formazione, bruttine e sgraziatelle. O forse era la preparazione a ciò che ci avrebbe atteso dopo, quando da VideoMusic ci facevano l'occhiolino tutti quei machi di plastica che non erano altro che tiratissime icone gay. Povera generazione di future donne ingannate dalla lacca e i colori fluo. Mbà. Comunque. Da piccoli tutto semplice. Poi qualcosa cambia. Non viene più niente in automatico. La cosa si complica. E allora succede che incontri un tipo che ha una maglietta di Lupin e ti dice Se tu fossi un cartone animato chi saresti? E tu che credi di non averla nemmeno vista quella maglietta rispondi a bomba "Ghemon!" e poi ci ripensi e trovi che in quella risposta lì hai già deciso di chiudere il canale di rapporto relegandoti un ruolo che non è il tuo. Che in automatico, a prescindere dall'esito, tu sei Margot, bellina, tu sei Fujiko, cara la mia donnina popputa. No. Io voglio essere un samurai giapponese ascetico e taciturno adesso. E tagliare a metà i palazzi se mi va. Ok. Che sia. Fasciati bene il torace, va anche bene così, in fondo, perché da piccoli tutto è automatico, ma non si può restare piccoli. Si cresce e tutto si complica. Se si è bravi si riesce a non incasinare troppo il tutto e a restare presenti, coscienti anche delle proprie chiusure, che prima o poi passeranno e i Ghemon lasceranno di nuovo il posto alle Fujiko. Affila la katana, nell'attesa. E riprendi il filo, appunto, ma del ragionamento, non della lama. Cartoni animati. Potentissima, la piccola Ponyo mi insegue in questi giorni. Lei, che tenacissima si sforza per farsi uscire le gambe per ritrovare Sosuke, le mani per poterlo abbracciare e correndo sulle onde imbizzarrite dell'oceano, incurante dello tsunami che provoca, innamorata e felice, Ponyo lo raggiunge e lo stringe così forte da lasciargli il viso ammaccato. Ha cinque anni Ponyo, è già capace di scegliere la propria felicità. E per quella lottare. Da piccolo pesce, o medusa, Ponyo sceglie di essere donna, lei. Io resto in stand-by, con i canali serrati. Ma va bene anche così, ogni cosa ha il suo tempo. E il mio tempo lo uso bene, ed è già tanto. Vado a trovare un amico e parlando con lui il canale apre uno spiraglio ed esce fuori un'immagine importante e forse più di una. Perché viene fuori che è come se il bambino crescendo venisse caricato di sassi pesanti che lo ingobbiscono. Il senso del cammino sta nel riuscire ad accorgersi dei pesi superflui e toglierseli di dosso uno ad uno, attraverso i rapporti sani che facciamo, scegliendo i giusti compagni di viaggio, liberarci delle zavorre e alleggerirsi per ritornare alla libertà del bambino. Ma poi ci guardiamo e altro prende forma, vista la mia paura a intraprendere il cammino, che poi mi tocca realizzarmi! Un sorriso, un pensiero cupo, una paura. Sì, una paura in fondo. Perché ogni cosa ha anche il suo tempo, è meglio non andare troppo in fretta, meglio non togliere peso tutto insieme o si può volare via. E' come se fossimo alberi. Ognuno ha una parte un po' sciupata che può essere potata via. Ma va tolta pian piano, per dare tempo alla chioma di creare nuovi rami che compensino la perdita. Una persona ha nei suoi lati "malati" anche una parte di sicurezza, fan parte della sua identità. Guarire non significa amputarli in blocco, altrimenti nell'identità si forma un vuoto dentro al quale si può perdere tutto e impazzire. Rimuovendo un ramo per volta, bilanciarlo con un ramo sano. Crearli, con fantasia. Allora tutti possiamo guarire? No. Purtroppo no. Allora? Come funziona quest'immagine? Eh. Funziona che ho paura perché penso che poi, probabilmente, esistono degli alberi che all'apparenza sono forti quanto gli altri e la loro chioma tornerebbe sana con lo stesso giochino, ma sotto all'apparenza i loro tronchi sono cavi, devastati dall'azione di un parassita che gli ha divorato il dentro. Alberi cavi per i quali, per quanto equilibrio possa esserci nella cura della chioma, il tronco rischia di schiantarsi inaspettatamente e rovinare a terra, spezzati, distruggendo tutto ciò che stava intorno. Taccio. Lui tace, annuisce, ci vediamo davvero, io penso. Ho quella paura lì, io? Sì. Di non riuscire, di non poterlo fare. E poi è tardi e bisogna andare. Gli sono grata, mi ha smosso tanta roba e pedalando via sorrido e splendo, sono come felice, anche mentre piango. E penso che gli annullamenti della donnina popputa verso se stessa forse non esistono, è semplicemente una scelta, mettere dei paletti, cercare un distacco. Per sfrondare i rami malati e partorirne di sani, trovare delle radici forti. Per poterle intrecciare, un giorno, ad altre radici. Forse.

1 commento:

  1. ciao Cara.
    é troppo lungo come primo post da leggere dopo tanto tempo.

    mi ci applicherò
    adesso ho ospiti in casa Esther e Lynn, dal Belgio.
    Sabato arriva una da Honk Hong

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