giovedì 2 dicembre 2010
D'argento.
Continua a piovere, continuo a vivere umida e scomoda e per lo più assente. L'Arno, melmoso, sale. Il pomodoro elettrico inizia a risentire del calo di temperatura e vado a passo di lumaca, un fanalino bruciato, le spie partite e lampeggianti, inaffidabili. L'oro della ginko contro il cielo è soltanto un ricordo e così vado bramando stivali arancioni, borse rosse, cappelli viola. La città è grigia e sporca, fradicia e fredda, opprime, stanca e annoia. Respiro lo smog e mi ammalo al volo, che vorrei uscire e trovarmi ancora in strade chiare di muri bianchi, o in stanze colorate di case affollate dove assaggiare sgagliozze e non sognare rompimenti di coglioni. Leggo ricette di toast dolci e domenicali, uno strato di crema al cioccolato, una purea di lamponi frullati e una veloce ripassata nel burro della padella antiaderente. Ne immagino altri con marmellata di albicocche e una grattugiata di quella cioccolata amara all'arancia che ho da qualche parte per un effetto similsacher, cerco voglie qualsiasi in questo tempo grigio. Trovo ben poco, appesantita da ciò che non riesco a scollinare. Come dover affrontare un ostacolo che non si riesce a vedere. Tastarsi gli occhi e chiedersi dove sia che non funzionano. Sparisce la vitalità di fronte a un senso di fallimento, di inutilità, quasi che tutto fosse stato vano. Seppur con tanto nuovo resto zavorrata da un vuoto di abbandono, una ferita subdola che duole e sanguina e non capisco la cura dove potrò mai trovarla. In quello che desidero, mi dico. Mi trovo inquieta, triste. Trovo in un blog le parole di Baudelaire dall'ultimo dei suoi Piccoli poemi in prosa e sospiro.
Questa vita è un ospedale dove ogni ammalato è posseduto dal desiderio di mutar di letto. Questi vorrebbe soffrire di fronte alla stufa, e quegli crede che guarirebbe accanto alla finestra.
A me sembra che stare sempre bene là dove non sono, e questo problema dello sgombero è uno di quelli che discuto senza requie con l'anima mia
Io che cantavo sempre The wind knows my name adesso sento che non c'é più un altrove dove correr via a stare bene e nessun vento mi trascinerà più. Quella streghina è sempre lì, mi rode da mesi, anni, la immagino dietro alle parole, intuisco la presenza nel non detto, finisce che la penso continuamente, presente, vittoriosa, spavalda, che se ne sta nel buco che ho lasciato sguarnito. C'é lei e son sparita io. Il dispiacermi di non bastare che da anni credevo d'aver scordato in una canzone degli Offlaga rimane lì, silente, e salta fuori di notte. Questi nodi dovrò scioglierli tutti se voglio mollare queste zavorre, ma in questo momento non so neanche da quale parte cominciare.
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La cura è forse in quello che desideri, di certo passa dal separarti da quello che non desideri più.
RispondiEliminaLa risposta sarebbe saggia e azzeccata. Ma quando scrivo che C'é lei e son sparita io non c'é più da esser saggi e azzeccare, ma solo da mettersi le mani nei capelli e scappare urlando. Che se sparisco io non c'é più possibilità di sapere quale siano i miei desideri o non desideri :(
RispondiEliminaSi capisce che sono in un momento incasinato? ;D
Io non capisco molto, però di sicuro uno che è sparito non ha nemmeno il pensiero di essere sparito, non c'è e basta. Allora mi dico che è un inganno, una trappola. Forse non sei tu ad essere sparita.
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