giovedì 30 luglio 2009

Tanta roba.

Stacco il telefono, voglio silenzio. Seduta al desk scorro le prenotazioni e cerco indirizzi noiosi a cui copincollare domande solite. Mi viene come una brutta faccia seduta qua e me la vedo riflessa nello specchio di fronte. No. Non è una brutta faccia, è un'espressione brutta. E' una piega che scompare appena esco. E' questo posto, allora. Che mi stanca, mi spenge, mi affatica. Fuori no, ma fuori è incerto e non so che altro ci possa essere. Forse potrei inventarmelo, forse lo sto già facendo. Forse non riuscirò fin quando non lascerò questa poltrona al desk e mi ritroverò col culo in terra. Mi guardo nello specchio, accaldata, frustata dal ventilatore in questa stanza senza finestre, opprimente, chiusa, soffocante. C'é la piega, eppure c'é altro, se sposto l'attenzione ridono gli occhi a rivedere immagini buffe, risate, tante, sorrisi, tanti, è un'energia nuova e mai conosciuta, un carburante demenziale e leggero che fa il solletico come le bollicine dell'acqua frizzante. Rido. Rido come una deficiente, come a scuola si rideva nell'ultimo banco io e Gaione di fronte al registratore che avrebbe dovuto captare il sostrato e il volgare e i poemi e invece registrava sghignazzate da bambine pestifere col cappello da ciuco. E poi il fuori che è l'andare sempre sfuggito. Il fuori percorribile adesso su un silenzioso pomodorino elastico. Che i primi giorni pareva un ippopotamo pronto a sedermisi sopra e adesso è già più agile, mi appare più piccolo, meno ostico, più maneggevole. Io ugualmente imbranata ci vivo sopra e basisco a 40 km orari. Io mi infilo il casco, ci salgo sopra, lo accendo e vado. Io. E vado piano, e vado storta, e vado alla cazzo, ma è quell'andare che è già tutto e conta. Sotto il sole torrido ho abbracciato Arthur e l'ho preso tra le braccia, come una sposa l'ho portato in cantina per difenderlo dalla calura, Arthur temporaneamente abbandonato ma non tradito, ferito, sgonfio, per ripararlo dall'inutilità, il mio amore a terra. Appena sarà meno afoso lo porterò dal mio biciclettaio, sempre in braccio come si fa con i cuccioli tristi e allora sarà di nuovo lui a farmi sguillare tra le auto e contro i sensi unici nelle giornate brevi. E' un passaggio strano di questo tempo storico, la elettricizzazione (motorizzazione non mi piaceva, fa rumore, il pomodorino fa un sibilo lieve e nulla più). Forse il solo passaggio dei tanti in corso adesso che resterà davvero e mi si appiccicherà addosso, o forse no. Ci sono tante cose buttate sparse e alla rinfusa, é come aver capovolto un grosso cesto di giochi sul tappeto e ritrovarseli tutti sciorinati e appetibili, di tutto e di più a portata di mano ma non allungare ancora il braccio e continuare a guardare, in attesa. Sedimentando, per aver qualcosa che sia solido su cui poggiare il culo per riposare una volta tanto e non avere fretta. Parlando cercando scavando è affiorata un'immagine di cosa sia un rapporto o come forse dovrebbe essere. Un prato. Un prato senza altro. Dove volendo si può correre in tutte le direzioni, si possono fare le capriole, dove i paletti e i recinti sono cose che intralciano la vista e disturbano, che tolgono al possibile e sono buoni solo ad essere scavalcati oppure divelti per cancellare le proprietà private, i divieti d'accesso. Ma non per vandalismo. Dove se lanci una palla hai tutto l'agio di vedere dove va a finire. Alla faccia di quei rapporti che sono stanze chiuse, in cui se lanci una palla il rischio è quello che una volta rimbalzata nel muro ti arrivi forte in faccia a farti un occhio nero. Tra qualche tempo saprò se quel prato verde esiste, adesso sono alle prese con il mio pavimento, ho delle piastrelle disconnesse e alcuni enormi buchi dove rischio di cadere ogni volta che cammino dalla cucina al salotto del mio dentro. Avevo scritto anima, ma io l'anima non ce l'ho, tuttalpiù delle animelle. E tutte quelle trippe mi si agitano al punto di farmi lacrimare quando mi imbatto in una meravigliosa vacanza che ho fatto, ho navigato dove non sapevo, trasportata da una amica che non ho mai visto e che mi cerca, mi trova, in ogni bici allucchettata di Firenze. Che mondo strano, il web. Che mondo bello, il fuori. Che meraviglia, smuovere i sogni.

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