Napoleone, Vecchio Conventino, 2000 e qualcosa
Ho cercato di capire cosa sono, cosa divento adesso, che cosa sono stata. Ho trovato dei punti di contatto in queste serate, nei libri ordinati in rete (fortunatamente scontati) che mi "serviranno" tra un po'. In alcuni discorsi, in certi sguardi, in determinate parole. E forse conferme. E sorprese. Scrivere di San Salvi mi viene quasi facile, direi. Mi è semplice capire che cosa muove Claudio Ascoli nelle sue passeggiate, cosa lo esorta al racconto e all'incontro seppur faticoso. Sarà perché mi smuove le stesse cose che mi hanno animato per dieci anni, quando la Cella 19 raccoglieva i suoni dell'hortus conclusus e i profumi della roba vecchia nei corridoi chiusi. Il Vecchio Conventino era un luogo di memoria, pieno di storie. Non drammatiche come quelle che aleggiano in un luogo intriso di grande sofferenza, che è stato una struttura di contenzione, no. Però nel Conventino c'era un'umanità di cui ugualmente si è cancellata la memoria e tutte quelle scritte sui muri avrei voluto mantenerle vive. La realtà degli artigiani, degli artisti che dopo la guerra si erano arrabattati come potevano e hanno conosciuto il momento dorato del boom economico, per poi lentamente esser messi da parte e ritrovarsi dimenticati, abbandonati dalle nuove generazioni votate allo studio, al progresso, a lavori diversi. Quegli artigiani fieri e scontrosi, testardi, che di fronte alla possibilità di avere una bottega in regalo in cambio dell'abbattimento di mezzo convento si compattarono e fecero fronte unico. Rifiutarono la regalìa per non spregiare quel luogo. Quanti anni, ad ascoltare le storie di chi passava, di chi aveva voglia di raccontare. Che due palle che ho fatto per tanto tempo a chi per caso inciampava nel discorso. Adesso il convento è un argomento che non tocco più, ma c'è, c'è sempre il conventino sotto le braci. C'è ancora la sua storia, quella spicciola e quotidiana, corale e indistinta di chi ci lavorava o ci giocava in calzoni corti e c'è quella che appartiene alla città perché abbraccia personaggi "pubblici", i partigiani, Sandro Pertini, Oriana Fallaci, gli artisti come Venturino Venturi, Rosai, il Guasti. E ci sono le immagini. Adesso andare là non serve a nulla, è importante solo quello che è rimasto dentro.
Ascoltare il racconto degli alberi donati da Marcello Mastroianni una volta finito di girare con Bolognini "Per le antiche scale", riporta alla mente quella giungla che era l'orto, con i suoi alberi da frutta, le piante, gli arbusti, i fiori, la vite, i pomodori. L'immagine degli alberi con il filino intorno per contrassegnare quelli protetti. La ruspa che strappa e spiana ogni cosa, il rumore e poi gli alberi con le radici ignude, tutti, anche quelli che erano da salvaguardare. Che beffa. E a lavori finiti, nell'euforia dell'inaugurazione, nel cortiletto nuovo, ordinato, pulito, qualche misero alberello, stento, affaticato. Ecco da dove nasce l'energia. Dal desiderio che si possa compiere il Mai più.
Il post è bellissimo... sono andata a cercare un po' di cose on line. Ho visto della ristrutturazione. Lo consideravano in degrado?!?!
RispondiEliminap.s. Sono contentissima!!! E' la risposta alla mail... ricevo ma fatico a inviare ;-)
Caspita!Mi stupisco sempre emi commuovo della memoria racchiusa nei luoghi... ma forse siamo noi che scrutiamo le tracce del passato, che viviamo i luoghi nella prospettiva delle vicende che li hanno abitati, mentre loro scorrono il loro tempo indifferenti alle nostre umane sorti.
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