venerdì 27 marzo 2009

Tsk.


Sono finiti i giorni delle mencitudini e i sospiri, stamattina ero più caparbia e determinata che mai. Ho sputato i rospi, che a tenermeli in gola mi avvelenavano la vita, ho ripensato ai fiori sull'albero di fronte alla mia finestra ieri mattina, alla cornice in argento che aspetta solo una passata di cotone imbevuto di solfuro di potassio diluitissimo e pietra a volontà. Posso provarci, lanciarmi e addio. Se non sarà il convento sarà altrove. Il laboratorio 18 sono soltanto mura nel complesso "Vecchio Conventino", quello che io mi porterei via sarebbe la cella 19, l'edera sui muri, i ragni nascosti nelle crepe dei muri, le voci e le memorie di tutti quegli occhi ormai liquidi e quei capelli ormai bianchi se non son già diventati polvere. Quando il convento era ancora un posto segreto dove non incontravamo mai nessuno e tutto taceva venivo presa da un magone assassino e in preda a raptus di romanticismo perdente desideravo morire ed esser seppellita lì dentro. Guardando l'hortus conclusus coi pomodori, i giacinti, la pazienza, la vite e il lillà, quella giungla piena di alberi che regalavano nocciole, susine, albicocche, ciliegie, pere, mele e giuggiole mi sembrava di trovarmi in una favola sospesa. Il rumore del traffico svanito seppur a pochi metri. La notte attraversata dal richiamo delle civette e dell'allocco, agghiacciante in quel silenzio di corridoi deserti e muti. Le pantegane grosse come poponi a scorrazzare sui marciapiedi sconnessi. Eppure mai una volta mi son sentita insicura lì dentro. In quel ventre vecchio e polveroso e ricamato di ragnatele non ho mai rabbrividito. Adesso l'hortus che fu conclusus è aperto al cantiere e presto lo sarà alla cittadinanza del quartiere, risuonerà di voci non volute. I suoi vialetti aridi di pietra finta sezionano quello che forse diventerà il verde ordinato e scansionato in spicchi, il pozzo senza più l'erba folta e i tronchi se ne sta lì ignudo. Quando il figlio del vecchio pellettiere, architetto e sognatore e resistente, ci spiegò un po' la struttura del Conventino, ci incantò tutti con la visione che la sua concezione architettonica rispecchiava: il quadrilatero ospita delle celle che si affacciano all'interno su un hortus conclusus. Le finestre esterne del convento invece sono quelle dei corridoi. Questo era dovuto al fatto che l'esterno, la città, era l'inferno. Tra l'esterno e la cella il corridoio funzionava da spazio di separazione. Le celle dove le suorine se ne stavano a pregare santa teresa o a pensare a quegli stronzi che l'avevano infilate a marcire in clausura erano il purgatorio e da quello stato di purificazione e attesa le disgraziatelle potevano ammirare (ma non accedere) al paradiso, ovvero l'orto. Ma adesso l'orto non c'é più. Io c'ero e lo ricordo bene il giorno in cui le ruspe hanno strappato le radici di quelle piante meravigliose e vive dalla terra. Quello che per le carmelitane era l'inferno ha preso possesso dell'interno del convento e il paradiso è già stato sfrattato. Quando tutto il capovolgimento sarà definitivo si perderanno il senno e la pace, lì dentro. Ma forse io sarò già altrove.

2 commenti:

  1. Non riuscirei a dire nulla neanche se fossi qui.. ho un nodo alla gola..

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  2. Le giunte di sinistra riescono a imporre le loro regole. Le regole ci vogliono, certo. Ma trasformare il conventino in una piccola Capalbio per artigiani radical-chic fa incazzare gli artigiani veri.
    Vadano affanculo, hanno perso una bella fetta di elettorato e che c'è di male se perdono una splendida artigiana?

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