mercoledì 20 aprile 2011

Indossare i guanti (e il cappello).


Era l'inizio del 2009, il blog doveva ancora nascere e io ri-. Iniziai a leggere un libro il cui titolo mi aveva sempre evocato qualcosa di surreale. Ma ne rimasi così sconvolta che alla quarta storia raccontata dall'autore lo chiusi e lo regalai al volo. E' passato molto tempo e ho letto altro, visto altro, forse conosciuto cose che mi han dato modo di poter mettere a fuoco e trasformare in parole quegli sconvolgimenti e soprattutto di avere il coraggio di esprimerli. Così capitandomi di nuovo il libro sotto mano l'ho ripreso e ho ricominciato da capo, arrivando quasi in fondo. Il libro è L'uomo che scambió sua moglie per un cappello. E non parla di favole surreali, ma dei casi clinici affrontati dal dottor Sacks. Già il fatto che egli possegga un titolo di fronte al cognome dovrebbe togliermi ogni diritto di parlare, perchè non solo non ho studiato, ma neanche forse posso farmi un'idea attraverso una qualsiasi esperienza diretta di quello che si incasina nel cervello con una patologia presente. Insomma. Il libro mi confonde tantissimo e forse rischio di crearmi una serqua di credenze. Il fatto è questo. Da una parte metto le malattie del corpo che quindi portano lesioni malfunzionamenti e cortocircuiti. E allora ictus, degenerazioni, ischemie, tumori, traumi. Tutto si altera per una causa organica e da un giorno all'altro mia zia è sempre mia zia ma io e tutta la famiglia per lei non siamo più niente e forse anche lei per se stessa non sa chi è, perché d'un tratto non ha più memoria di chi è stata. Oppure M**** ha un ictus ed è sempre lei ma ha un problema con il linguaggio adesso e penso in special modo con le misurazioni e coi numeri, visto che se domandi da quanto tempo ha fatto una cosa forse risponde da quattro chili e mezzo o che so io. Mi è chiaro. Poi ci sono altre situazioni in cui si ammala il pensiero e di conseguenza si altera il rapporto interumano. Ma questo non è dato da un guasto organico. Il pensiero non è il cervello. Peró vado nel difficile e nel delicato, devo prendere tutto con i guanti. Credo che il cervello di un autistico sia funzionale, funzioni benissimo, a volte li definiscono genii. Però l'autistico fa fuori la realtà umana. Come gli aspie che non sanno leggere l'espressione del viso. Che in questi casi si ammali forse l'affettività? Si guasta forse il rapporto con la realtà umana? In particolare c'è una cosa nel libro che non afferro. È una sindrome. Potrei cercare su google, ma considerando tutte le ricerche americane che si trovano in giro, con favolose scoperte tipo La felicità è genetica, il tradimento è scritto nei geni e altre chicche simili, ho preferito evitare. Quindi seguendo solo il mio pensiero c'è un alto rischio di dire immani cazzate e questo mi fa esser cauta, perché comunque con le malattie non si scherza. Il fatto è che in mezzo ai casi clinici "organici" secondo me si mescolano casi clinici "comportamentali". Non so se esista questa differenza, ma intendo questo: un ictus è organico, l'anoressia e la depressione no. È vero che nell'anoressia e nella depressione si altera anche il fisico a livello chimico, ma di conseguenza.E per guarire, dopo aver ripristinato la chimica, va curato il pensiero. In uno dei casi del libro, che riguarda questa sindrome e che per ignoranza non posso classificare come organico o meno, viene somministrata la cura e succede una cosa che mi ha fatto pensare. La cura non funziona come dovrebbe e il malato afferma di non voler essere diverso da come è sempre stato. Perció viene avviata una psicoterapia per poter rendere possibile nel paziente una separazione dall'identità di malato. Dopo mesi faticosissimi passati a immaginare come potrebbe essere la sua vita da sano, cosa potrebbe fare che adesso gli è precluso, alla fine gli viene ridato il farmaco e la cura funziona. Peró il malato ha "nostalgia" del suo stato alterato e decide con il medico di spalmare la cura sui giorni di lavoro e non curarsi nel tempo libero. Io mi faccio una mia idea, sulla cosa, sicuramente sbagliando, prendendo la cosa con superficialità, ma una domanda viene a galla. Un organicismo di fondo in questo approccio mi pare evidente, tanto per cominciare. Ma si puó essere malati per scelta a giorni alterni? Quanto è legato, tutto questo, al pensiero? Certe manifestazioni di disagio come i tic, possono essere quelle coazioni a ripetere, quei manierismi legati/dovuti a una "debolezza" di identitá e dunque curabili e non necessariamente cronici? Quello che mi sono chiesta ad esempio è: se esiste una sorta di tic "fonetico" per cui il paziente ripete in loop delle cose che il più delle volte sono coprolalia, come mai va a cascare proprio su quella, che è una cosa che di solito si reprime e quindi in certi contesti spiazza, indigna, aggredisce, e non va in loop ripetendo che ne so... solo preghiere? filastrocche? poesie? E' qualcosa che va a finire lì perché esiste un preciso centro dove il turpiloquio è custodito, esattamente come il casino coi numeri capitato alla sventurata M**** oppure la coprolalia ha anche un valore in quanto espressione destabilizzante per il prossimo? Quello che non mi convince di queste sindromi è il fatto che vengano a volte "diluite" e che possano esistere vari livelli e intensità, al punto da poter associare "episodi" a quella sindrome. Un po' come dire: siamo tutti più o meno autistici, siamo tutti tourettici, siamo tutti un po' aspie. Siamo tutti più o meno MALATI. Non credo che sia così. O sei sano o sei malato. Qua mi viene in mente un meraviglioso incipit di un racconto che partiva con lei che affermava Sono mezza lesbica e lui dava di matto per la storia del mezza. Alcune cose non hanno grado, o lo sei o no. Si è forse un po' incinte? Se una cosa è una malattia, si è malati, punto. Ma tutti? Allora per certi casi, per gli episodi, per quelle cose sporadiche, forse non si sta più parlando di una malattia, ma di qualcosa che può succedere in presenza di un pensiero ammalato, di un rapporto interumano alterato. Un mio amico ha vissuto un periodo di violentissimi tic, roba imbarazzante a stargli vicino. Io l'ho definito stressato, ma mai malato. Ho pensato che se fosse riuscito a superare la timidezza e magari a trovarsi una donna i tic sarebbero spariti. E infatti lo sono. Ci son cose che stando nel rapporto con l'altro si risolvono. Ma curare dal punto di vista umano forse è troppo faticoso, in una società che non ha tempo. Oppure forse è più semplice togliere i sintomi e lasciare il pensiero ammalato. Si fa presto: definisce una persona "speciale", così si evita pure la parola malato che fa brutto e poi dare di malato in certe culture molto religiose equivale a marchiare un individuo al pari di una colpa, che se c'hai il male te lo seimeritato, te l'ha mandato dio. Allora facciamo così: Sei speciale, ti si appioppa una vaghissima sindrome e ti si bombarda di pillole. Niente più sintomi e sei guarito, stai nella società e non rompi i coglioni a nessuno. Mah. La timidezza stessa è stata classificata come malattia. Deve esserci un confine che stabilisca dove inizia la malattia e dove gli stati d'animo, cosa è patologia e cosa no. Il libro lo finiró a breve, ma dubito che troveró lì delle risposte.

12 commenti:

  1. Beh, sai, dare delle risposte certe a tutte queste domande non è facile per l'essere umano che specula (nel senso che riflette)su cosa sia l'animo (o, se preferisci, la psiche). Dalla psicosi non si può MAI "guarire" del tutto, come accade con i mali fisiologici. Te lo dico perchè ne ho parlato innumerevoli volte con mia madre, che è psichiatra da 35 anni. Per quanto riguarda il fatto: dove sia il confine tra malattia e salute, io credo che non sia possibile individuarla in maniera tanto netta. Come dire che un germe di follia è già presente in ognuno di noi. Sì, io sono convinta che siamo tutti più o meno malati e che ci siano dei "livelli" di "malattia", che prima di arrivare alla psicosi, ci sia la sindrome, che prima di arrivare alla sindrome, ci sia l'episodio. Non siamo tutti soggetti ad attacchi d'ansia, di angoscia, di depressione momentanei? Non siamo forse in balia dei nostri mutamenti d'umore? Non è forse tutto un equilibrio sopra la follia? (ah-ah!)

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  2. Gli americani sono ossessionati dagli schemi: non importa curare la malattia, basta classificarla. Una volta che hanno dato un nome alla malattia, questa non è piú quello che hai, ma quello che sei: autistico, tourettico, depresso, ebefrenico. La malattia diventa una identitá, uno stile di vita. A quel punto la cura non serve. È la medicina che abdica al suo ruolo.

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  3. Giovanni ha ragione, infatti gli americani hanno stilato il DSM, ma di cura psichica non ne parlano, al massimo, come quasi dappertutto, parlano di "prendersi cura". Uno dei problemi nell'approccio alla malattia mentale (non alle cerebropatie) è capire e scoprire che c'è una noxa esterna. Se lo si scopre diventa evidente che la terapia consiste nella lotta contro l'agente patogeno parallelamente alla ristrutturazione del pensiero del paziente. Se poi si scopre che è un certo tipo di società e di cultura a far ammalare allora la psichiatria diventa anche lotta politica.
    La nostra cultura non ha trovato di meglio che dire che, sotto sotto, siamo tutti un po' matti. E' una cultura che crede nel peccato originale e pensa che la psiche sia una roba mandata da dio. Quando qualcuno scopre l'origine del pensiero umano dalla realtà biologica le cose cambiano eccome, perchè si opporrà alla malattia non considerandola un fatto naturale, distinguerà le cerebropatie dalle malattie mentali. Ma soprattutto lotterà contro una cultura religiosa o organicista.

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  4. Il cervello è rpima di tutto un orano, con leggi e collegamenti e quindi se uno di questi collegamenti non va, allora parloamo di malattia e quella è evidente da una TAC o una Risonanza o a volte da un semplice elettroencefalogramma.
    Poi ci sono le malattie dei pensieri, e quelle , in cervello non lesionati, sono legate anche alla elaborazione della mente che, ancge geneticamente parlando è è come il DNA : unico
    Fatta questa distizione, che è il mio pensiero ovviamente, allora ci soo le miriadi di emozioni, ormonali e non, che ci fanno rwagire alle cose a volte in maniera "patologoca" ma alla fine è solo un grande disagio esistenziale di cui pochi tengono conto.
    Io poi sono convinta che il pensiero veicoli in qualche modo malattia e guarigione, perchè ci dà una grande forza che è quella della di affrontare la cosa o no,insomma la scelta.
    Io sono mamma e con le emicranie soffro come un cane, anche con la pillola, ma se devo badare ai piccoli la sofferenza si fa da parte, il pensiero di fare altro mi dà la forza di farlo, ecco un esempio secondo me di pensiero veicolante.
    Per il resto hai detto tante cose e mamma mia! mi sono un po' incasinata!:-)
    Cordialmente

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  5. Commento e mi interrompe il telefono. Riprovo e mi interrompe un arrivo. Ritento e Spiacenti blogger ha di meglio che star qui a farvi postare commenti.
    Risponderó con calma :)

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  6. Come mi piacete che mi date un sacco di filini da seguire! :)
    Grazie!

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  7. leggiamo commentiamo è quello il bello, è questa la cultura e la società che si arricchisce davvero. altrimenti non potremmo mai perchè il 90% degli autori ha il dott l'ing il prof e il lup mann davanti al cognome...
    io è da poco che sto, come dici tu, leggendo altro vedendo altro...quindi ho ancora in testa un po' di confusione, non ho ancora una posizione.
    il male organico è chiaro, più o meno.
    l'altro? l'altro tipo è qualcosa che riguarda la psiche...e la cura mi sembra per forza la parola.
    (vabbè, volevo partecipare passo al post succesivo)

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  8. In verità credo che la nostra relazione mente/corpo è un pò come un serpente che si morde la coda: la nostra mente è in grado di influenzare anche a livelli di biochimica il nostro corpo ed il nostro corpo, in virtù di malesseri fisci che fanno si che questo emetta determinate sostanze che influenzano la psiche, sia a causa dei sintomi del malessere stesso che scatenano in noi determinati stati psicologici, è ingrado di influenzare la nostra mente (o psiche che dir si voglia)
    La nostra depressione è ingrado di creare in noi un qualche malanno fisico, la nostra tensione emotiva può fare insorgere una influenza, la nostra mancanza di riposo mentale -durante una qualche attività di tipo intellettivo come scrittore o insegnante, ad esempio- scatena in noi un raffreddore particolarmente pervicace o una sciatica o un improvviso rigonfiamento del viso con sfogo sulla pelle e febbre d'accompagnamento (cito fatti conosciuti).
    Una emicrania insistente, potente e prepotente, farci deprimere o suscitare in noi altre situazioni psicologiche.
    Tutto alla fine si riconduce alla nostra capacità di regredire o improvvisamente rifiorire anche in situazioni fische particolarmente gravi come pure situazioni strane eppure alla fine, forse, spiegabili.
    Il caso di colui che vuol essere ammalato certi giorni si e certi no, potrebbe avere una spiegazione insolita eppure chiara e qui faccio una ipotesi davvero blanda: essere in un determinato stato fisico e quindi psichico non solo influenza i nostri comportamenti ma anche quelli degli altri così, in un certo senso, si può avere il controllo delle emozioni o delle vite altrui, così si può essere in uno stato di certezza, di bisogno soddisfatto, di potere o di accudimento che sentiamo necessari per noi stessi.
    Pensa solo alle anoressiche, quelle vere, quelle che iniziano poco prima del ciclo: è il loro rifiuto della femminilità così come gli è stata paventata (negativamente) e ciò lo interpetano con il corpo che diventa femminile, fertile e quindi via il seno, via il ciclo, via ciò che porta l'arrivo del ciclo, e quindi via le emozioni ma anche, suppongo, arriva l'ebrezza del controllo della prorpia vita nel recesso più profondo e fondamentale: il cibo che sostiene e influenza quel corpo che non muta. Ma anche le persone intorno all'anoressica che vedono che essa nn mangia come loro e quando lo fanno loro, che nn patisce la ricerca o l'assenza del cibo e quel corpo che via via deperisce non sembra voler crollare almeno fino a quando nn arrivano gli effetti collaterali (il primo periodo di digiuno o assunzione minima di cibo pare diano sensazioni esaltanti) come la debolezza e la magrezza scheletrica e abbruttente ed ancora costei che nn cede neppure a questo (cederà il corpo direttamente alla fine)
    Noi siamo sia noi stessi dall'educazione diretta ed indiretta dei genitori, poi siamo la società e le sue regole dirette o indirette (conseguentemente interpretabili)e lo siamo nelle due fasi dell'infanzia e dell'adolescenza...siamo anche il risultato della crescita e nell'entrata nell'età adulta con più o meno traumi che ci trattengono o ci esaltano, siamo a volte anche il lavoro che volenti o nolenti scegliamo di fare, siamo anche chi scegliamo e perchè scegliamo come figure ispiratrici che possono o meno sostituire i genitori.
    Se da ciò poi siamo alla fine anche il malanno mentale o psichico che ci prende o ci trasforma forse si, perchè nn necessariamente quel malanno viene da noi stessi ma ha una causa esterna...Un ictus viene per ciò che mangiamo e la domanda è: perchè mangiamo quella roba che poi ci ha fatto venire l'ictus?
    Un tempo si riteneva che certi stati mentali tipici di determinate popolazioni fossero dovuti al cibo tradizionalmente mangiato (a volte unito all'ambiente o ai luoghi in cui si viveva)

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  9. Naturalmente nn alludo a ciò intendendola all'americana, ovvero lo stato mentale -o psichico che dir si voglia- come Uei oV laiF, come classificazione...ma come possibile risultato di sofferenze o lotte intestine avvenute chissà quando.
    Persino i nativi americani erano arrivati a questa coclusione, ed altri popoli animisti e non, così i buddisti e, checchè se ne pensi anche i cristiani e come al solito alla fine è un problema di intepretazioni successive e personali ma anche di adesione sterile al dogma mettendo da parte il significato originario e più profondo: che porre fine alla sofferenza, che accudire chi soffre e lenire la sofferenza è tuo dovere. Soccorrere ed accertarsi del benessere del sofferente è tuo dovere.
    Che chi soffre è un gradino più alto rispetto ad altri, la sua sofferenza non lo avvicina a Dio di per sè ma dovrebbe avvicinare TE nel momento in cui, senza nulla chiedere nè pensare, semplicemente accudento e ponendo fine alle sofferenze di quella persona.

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  10. A riprova di ciò esistono le varie farmacie dei monasteri che per secoli hanno curato le persone...In Trentino, prima ancora che divenisse di largo uso, era normale andar per rimedi tratti da erbe per vari malanni o addirittura cosmesi nei monasteri ed addirittura le farmacie "normali" vendevano rimedi naturali conosciuti da anni nei monasteri.
    Insomma non erano necessariamente cose solo per ricchi...

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  11. @Paperplanes: Accipicchia Isa, che commentone! Su molte cose sono d'accordo con te, però sul fatto del dovere e dell'accudire chi soffre insomma. Voglio dire che una cosa è curare chi soffre, un'altra assisterlo. Teresa di Calcutta, ad esempio, accudiva i sofferenti, li accarezzava, pregava con loro. Ma si guardava bene dal curarli perché la sofferenza era ciò che li avvicinava a Dio. Il Cristianesimo è una religione in cui Dio, per poter perdonare gli uomini del loro peccato, con cui nascono, fa trucidare suo figlio, è storicamente un dio di sangue e di vendetta e tutti i Cristiani nascono quindi col peso del sacrificio di un Dio che si è fatto massacrare per salvarli. Il senso di colpa, la sofferenza, l'espiazione sono così radicati nella religione cristiana da non poterne essere scissi. Quindi madre teresa non curava MAI chi finiva nei suoi ospizi, e non c'è nemmeno da scandalizzarsi visto che, ad esempio, i preti possono studiare e svolgere qualsiasi attività TRANNE la medicina. La cura no, non è prevista, non si deve fare, perché se ti ammali è per la volontà di dio. Questo non toglie che poi al primo raffreddore papa e cardinali corrano in ospedale e che in vaticano ci sia una delle farmacie più fornite d'italia, in cui vanno spesso i romani perché si trovano anche le medicine che nel resto del paese non esistono. Ci si trovava anche il viagra, prima che fosse legale in italia, ma questa è un'altra storia. Io non credo che accudire sia un dovere, credo che curare chi vuole essere curato, se se ne ha la capacità, lo sia. Lenire la sofferenza è un termine ambiguo. Non credo che dire poverino e passare un pannicello caldo sia sempre utile, a volte due labbrate o un calcio nel culo fanno meglio. Ma spesso a chi passa pannicelli o tiene la mano al sofferente della cura non frega poi molto, e nemmeno del sofferente stesso. L'importante è essere lì, buoni, pronti al sacrificio, a dimostrare quanto si è meravigliosi.

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  12. Andreij: lup mann ahahahhahahhahah :*
    Paper: grande, hai capito cosa intendevo riguardo al controllo!! A volte il malato controlla il mondo intorno, gli altri ne vengono indirettamente soggiogati.
    Giovanni: arieccoci con madre teresa!!! e ci credo che poi c'ho le visite dal Vaticano ahahahahahahaha
    credo che Isa intendesse che nella sofferenza non c'entra niente l'avvicinare chicchessia a dio, ma che si tratta di un avvicinarsi tra persone. Il porre fine alle sofferenze sa un po' di azione finale, ma vabbé :D
    lenire la sofferenza è basilare, la terapia del dolore è necessaria, in quanto soffrire è un affaticamento inutile che consuma energie e scompensa l'organismo. E quanto ai calci in culo dipende un po' uno di cosa soffre... e chi non è dottore non avendo possibilità di cura fa già tanto anche solo con un pannicello caldo. Che non è l'azione ad essere sbagliata, ma il pensiero da cui nasce quell'azione. Se è un pensiero necrofilo è un'azione vuota, ma se nasce da un sentimento allora aiuta eccome.

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