venerdì 19 luglio 2013

Ad occhi chiusi.


Se ora tu bussassi alla mia porta
e ti togliessi gli occhiali
e io togliessi i miei che sono uguali
e poi tu entrassi dentro la mia bocca
senza temere baci diseguali
e mi dicessi “Amore mio,
ma che è successo?”, sarebbe un pezzo
di teatro di successo.

Patrizia Cavalli


Andavo, da sola. In una cella che non era la cella 19, un'altra, in una cella che non era nell'ala dove sono mille volte nata, non era piena delle cose conosciute eppure era convento. Ci andavo vestita elegante, non da lavoro. Andavo lì, nello stesso odore di storia di muffa e di passato. Avevo scarpe lilla, da donna, dal tacco altissimo. Camminavo spedita, equilibrio perfetto, senza pensarci. Ma era un tacco altissimo. Alla fermata dell'autobus avevo salutato in uomo sempre in viaggio, che per poco non perdeva il 2. Gli era toccato rincorrere il bus mentre io dicevo Vai che altrimenti lo perdi e per un pelo l'autista lo faceva salire, fermandosi e riaprendo le porte. Quell'uomo saliva, dalla porta centrale da dove tutti scendono. E io andavo al convento. E mentre razzolavo nella borsa ascoltavo se c'erano rumori dalla stanza accanto dalla porta spalancata e tintinnavo le chiavi, un poco apposta. Aspettavo e si affacciava dalla cella accanto il Maestro. E non aspettavo altro che venisse a chiedermi, a invitarmi a entrare, a parlare del convento e di cosa stava succedendo, degli sviluppi. Volevo che mi vedesse, così vestita bene, così femminile. Così diversa e nuova, lì dentro.

Ho più o meno varie età ma di sicuro ho sei anni, e so scegliere le parole giuste per raccontarmi le immagini che trovo di notte,i sogni che faccio di giorno.

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